L’ arte di sbagliare

L’ arte di sbagliare

 

Cosa significa l’arte di sbagliare?

Se intendiamo il concetto di arte nella sua accezione più antica, corrispondente all’uso greco del termine, ossia come “attività umana compiuta in base a principi razionali, appresi con l’esperienza o escogitati con l’ingegno

In che modo si collega con i nostri sbagli, errori o fallimenti?

Se, come i nostri antenati latini, con arte intendiamo “la corretta esecuzione di un opera

Esiste dunque un modo efficace ed appropriato di sbagliare?

Oppure, l’arte consiste nell’evitare di farlo?

Noi, che amiamo la vita, che lavoriamo con passione, che teniamo a svolgere al meglio il ruolo di genitore, figlio, amico, collega, dovremmo esprimere la nostra creatività nell’evitare l’errore?

l'arte di sbagliare

“Errare è umano”!

afferma una famosa massima attribuita a Sant’Agostino.

Questo significa che tendere alla perfezione è una “mission impossible”; un’aspettativa destinata al fallimento.

l'arte di sbagliare

Voglio portare all’attenzione di chi legge che il nostro potere personale si gioca nel saper approfittare dello sbaglio a vantaggio dei nostri obiettivi; nel considerare l’errore un prezioso alleato sulla strada per raggiungere i traguardi che ci diamo come persone e come professionisti.

Non potendo evitare l’errore, non ci rimane che sbagliare bene.

Imparando l’arte di sbagliare possiamo potenziare la nostra efficacia.

Non solo; possiamo porci come modello di comportamento per i nostri figli, per chi lavora con noi e, più in generale, per tutte le persone che popolano il nostro ambiente di vita.

A sostegno di questa affermazione interviene un vecchio proverbio latino: “sbagliando si impara”. Adagio frequentemente citato nella letteratura, nei corsi di formazione e nei dibattiti sull’argomento.

In linea di principio, nulla da eccepire. In teoria, sembra ovvio concordare con una simile massima. Eppure, detta così è una fake news! È un falso ideologico.

l'arte di sbagliare

Non è vero che basta sbagliare per apprendere!

Pescando dalla storia, tanto quanto dall’esperienza di vita di ognuno di noi, mille sono gli esempi di errori ripetuti; di situazioni nelle quali ciclicamente ci imbattiamo come singoli e come genere umano.

Senza andare a pescare dalla storia con la <S> maiuscola, se solo ripenso alla mia esperienza di vita, mi vengono in mente le occasioni in cui come madre ho urlato verso mio figlio Gabriele, ripromettendomi – ogni volta – di non ricaderci più; mi sono sostituita a lui, ho scelto per lui, togliendogli il potere con l’alibi di proteggerlo da pericoli o sofferenze.

Come donna, ho scelto un partner lasciandomi attrarre da determinate caratteristiche di personalità, e mi sono ritrova in una storia d’amore deludente e frustrante.

Come professionista, spaventata dalle possibili conseguenze del dire <NO>, ho accettato incarichi e mi sono resa disponibile oltre misura, andando incontro a sovra affaticamento e innalzamento dei livelli di stress.

Non so voi?

Ecco, io ho sbagliato molte volte. Poche volte invece, e solo di recente, ho fatto tesoro della mia esperienza.

Perché questo succede? Dov’è il corto circuito? Cosa non funziona?

La prima cosa da mettere in evidenza è che viviamo in una società centrata sulla performance; ispirata ad un costrutto culturale che non ammette l’errore. Il modello competitivo della società occidentale enfatizza il successo e la chimera della perfezione. L’errore è tollerato; un incidente di percorso inopportuno. Il modello culturale nel quale viviamo e lavoriamo, non lascia spazio alle sviste, agli sbagli, alle mancanze richiedendoci di apparire belli, giovani, vincenti, capaci, felici.

Questo fa sì che viviamo il lavoro, lo sport, la scuola dei nostri figli, il nostro tempo privato imbottendoci di impegni sotto la bandiera del perfezionismo.

E, quindi, quando a dispetto della dimensione ideale, la vita vera, la dimensione reale, ci mette di fronte all’inevitabile esperienza dell’errore …

ecco che d’impulso …

prima che gli altri se ne accorgano …

tendiamo a mettere in atto una serie di comportamenti finalizzati a nascondere, superare, dimenticare, allontanare da noi l’errore.

Abitudini di comportamento, apprese crescendo, che funzionano molto bene a breve termine perché abbassano i livelli di stress e l’intensità delle emozioni scomode che si accendono quando costatiamo un’imperfezione.

Strategie di coping poco utili a medio e lungo termine per sfruttare l’errore a nostro vantaggio perché non favoriscono l’apprendimento.

Per apprendere l’arte di sbagliare, vediamo quali sono i comportamenti tradizionali che mettiamo in atto in corrispondenza dell’errore

Molti di noi, di fronte a scelte importanti, restano bloccati come reazione alla paura di sbagliare. In questi casi la persona non riesce ad andare avanti, a prendere decisioni, a cambiare comportamento. Si preferisce delegare la scelta agli altri o aspettare che le cose si aggiustino da sole legando il proprio benessere e la soddisfazione dei propri bisogni alla fortuna o alla buona volontà delle persone con le quali siamo in relazione. Paradossalmente questo atteggiamento aumenta il rischio dell’errore. Ad esempio, la risposta attesa può arrivare quando ormai è troppo tardi (una scelta di carriera; diventare genitori; intraprendere un percorso di cura). Inoltre, raramente la scelta migliore per gli altri, coincide con ciò che è pienamente soddisfacente per noi.

Altra reazione comune all’errore è l’iperattività. Tale comportamento consiste nel dedicare più tempo di quello normalmente richiesto ad un’attività, facendo e rifacendo le stesse azioni, controllando e ricontrollando gli stessi passaggi. Abbagliati dalla falsa credenza o bias cognitivo, che fare di più voglia dire fare meglio, costringiamo noi stessi a lavorare oltre l’orario di contratto, chiediamo ai nostri figli di studiare il doppio dei loro coetanei, ci priviamo del tempo libero e del divertimento. Il risultato è che disperdiamo energie e risorse nell’illusorio tentativo di evitare l’errore bypassando la riflessione sulle cause del fallimento.

Tra i comportamenti inefficaci troviamo anche la “caccia al colpevole” e il “disimpegno”.

Chi ama il calcio sa bene quante volte la colpa sia dell’arbitro; ma ogni bravo allenatore è consapevole che tale atteggiamento non aiuta a vincere il campionato. Quando, in corrispondenza di una défaillance, le risorse vengono impiegate nella ricerca di un colpevole, non si investe nelle opportunità di apprendimento e nella ricerca di una soluzione. Il risultato è che, di fronte ad una situazione simile, non avendo una strategia alternativa, la persona o il team ha un’altissima probabilità di ricadere nella stessa dinamica.

Del disimpegno come strategia di coping in risposta al fallimento ci ha narrato già il greco Esopo con la favola “La volpe e l’uva”. La Volpe, non riuscendo a raggiungere il grappolo desiderato, se ne va in cerca d’altro, attribuendo la responsabilità all’uva, a suo dire “acerba”.

Questa reazione è tipica della persona che di fronte ad una difficoltà, perde interesse. Si allontana fisicamente e/o psicologicamente per evitare di confrontarsi con l’errore.

Rompiamo legami, chiudiamo rapporti professionali, rinunciamo ad un obiettivo. Il risultato è che il nostro tempo e le nostre energie anziché orientate alla ricerca di una soluzione costruttiva, vengono disperse nella fatica di dover ogni volta ricominciare da capo e fare presto i conti con l’ennesima delusione. Se questi comportamenti non funzionano, cosa fare allora?

In cosa consiste l’arte di sbagliare?

4 SONO I PRINCIPI DELL’ARTE DI SBAGLIARE UTILI A TRASFORMARE ERRORI E  FALLIMENTI  FONTE DI NUTRIMENTO PER IL NOSTRO PERCORSO DI CRESCITA PERSONALE E PROFESSIONALE.

  1. Assumere la responsabilità dell’errore.
  2. Fidarsi di poter apprendere dall’esperienza.
  3. Dare riconoscimento e modulare le emozioni che si accendono.
  4. Agire, con impegno e fatica, il cambiamento necessario per raggiungere il nostro obiettivo.

Scendiamo nel dettaglio.

Quando svolgendo le attività quotidiane ci imbattiamo in una difficoltà, un imprevisto, un ostacolo; quando ci accorgiamo di aver sbagliato o constatiamo un fallimento, il primo passo è riconoscere la nostra quota di responsabilità per l’accaduto. 

Nell’era digitale e dell’iperconnessione, è evidente che ci muoviamo in una dimensione relazionale dove tutto ciò che succede dentro e intorno a noi è frutto di una responsabilità condivisa. Se da una parte, questo significa che non è mai solo colpa nostra; allo stesso tempo, in ogni situazione problematica che nella vita ci troviamo ad affrontare, possiamo rivendicare un’area di responsabilità personale. Indipendentemente dalle dimensioni dell’area, è lì che ognuno di noi può usare il 100% di influenza per correggere l’errore e superare l’ostacolo verso il risultato desiderato.

Invece di guardare altrove, cercare il colpevole, tentare di tenere tutto sotto controllo, quello che veramente funziona è cercare di capire con curiosità e orgoglio, quale parte di responsabilità dello sbaglio è nostra e solo nostra. Lì possiamo agire; investire tempo e risorse per attivare creatività e proattività alla ricerca di soluzioni nuove.

Il secondo passo è potenziare l’autoefficacia; ossia la fiducia nelle capacità che abbiamo di apprendere dall’esperienza, di superare ostacoli noti e imprevisti; di sfruttare l’errore per sviluppare idee e strategie al fine di raggiungere il traguardo stabilito.

Autoconsapevolezza e autoefficacia da sole non sono sufficienti. Per imparare l’arte di sbagliare abbiamo bisogno della nostra intelligenza emozionale.

Quali sono le emozioni che vi capita di provare quando vi accorgete di aver sbagliato?

Quando vedete i vostri figli, i vostri affetti, gli altri intorno a voi rendersi conto di aver commesso errori, quali sentimenti si accendono in loro?

Senso di inadeguatezza, imbarazzo, senso di colpa, vergogna, rabbia, paura, frustrazione, dispiacere, delusione, rammarico …

Tutte quelle che ho elencato sono emozioni frequenti in corrispondenza di uno sbaglio o di un fallimento. Perché?

Se è vero che le emozioni, tutte, hanno una funzione adattiva, in che modo quelle emozioni possono esserci utili per far fruttare errori e fallimenti?

Possibile che emozioni spiacevoli, che ci fanno sentire a disagio e scomodi possano avere una qualche utilità ai fini del nostro successo come persone e come professionisti?

La soft skill Intelligenza Emozionale consiste nella capacità di riconoscere le emozioni che proviamo mentre le siamo provando, saperle comunicare in modo efficace alle persone con le quali siamo in relazione e abbinare ad esse un comportamento funzionale – e socialmente accettato – alla soddisfazione dei bisogni a breve, medio e lungo termine.

Quando, nello svolgimento di un compito, inciampiamo in un errore a reclamare soddisfazione possono essere bisogni legati alla sopravvivenza/sicurezza; alla necessità di sentirci amati e accettati dal gruppo; al riconoscimento sociale; oppure, ancora bisogni legati al sentirci realizzati rispetto al nostro sé ideale.

Il bisogno insoddisfatto accende una gamma emozionale fonte di distress la cui funzione adattiva è diminuire la probabilità di agire di nuovo il comportamento disfunzionale. In poche parole frustrazione, imbarazzo, senso di inadeguatezza e tutte le atre emozioni spiacevoli servono all’individuo che le sperimenta per adattarsi all’evento stressante e reagire con resilienza uscendone capace di superare l’errore e evitarlo in futuro.

Questo avviene perché le emozioni cosiddette negative, producono all’interno del nostro cervello un movimento elettrico costante e a bassa intensità che, provocando distress, sprona la persona a mettere in atto comportamenti correttivi di allontanamento o evitamento dell’esperienza spiacevole.

In altre parole, se non provassimo questo tipo di emozioni, non avremmo nessun motivo per cambiare e, come un criceto sulla ruota, ripeteremmo lo stesso errore all’infinito.

Inadeguatezza, colpa, rabbia, tristezza e le altre emozioni legate all’umana fallacia hanno la funzione di aiutare la persona a ricordare l’errore e motivarla a fare in modo che certe situazioni non si ripetano.

La motivazione al cambiamento non è di per sé sufficiente a superare positivamente la crisi. Strategie alternative e nuove soluzioni richiedono, per essere generate, perseveranza, creatività e pensiero laterale. Queste soft skills sono alimentate da una gamma emozionale fonte di eustress; ossia da emozioni che liberano sensazioni piacevoli nell’organismo. Ne cito alcune che mi stanno particolarmente a cuore.

La sorpresa, ad esempio, è fondamentale per l’arte di sbagliare. La sua funzione è di attirare l’attenzione della persona su un cambiamento nell’ambiente di vita. Possiamo apprendere da un nostro errore a condizione che ce ne accorgiamo e ne riconosciamo la responsabilità.

Curiosità è un’altra emozione positiva che facilita l’apprendimento. Questa emozione, infatti, fa sì che la persona resti in osservazione attenta dello sbaglio appena commesso cercando di conoscerlo nei dettagli e di separarne gli aspetti positivi da quelli negativi da modificare.

La serenità aumenta la capacità di attenzione, concentrazione e accettazione dell’errore.

L’orgoglio motiva all’assunzione di responsabilità rispetto allo sbaglio.

Il coraggio potenzia la perseveranza.

Divertimento e gioia aumentano il livello di motivazione allesame dellesperienza finalizzato allapprendimento .

In generale le emozioni che generano eustress aumentano la probabilità di agire comportamenti funzionali. In corrispondenza di sensazioni piacevoli, infatti, nel nostro cervello viene liberata una scarica elettrica, detta “picco herziale”, ad altissima intensità, ma di breve durata, che lascia una traccia nella memoria emozionale. L’impronta mnestica spinge la persona a ripetere quei comportamenti capaci di riprodurre esperienze simili. In altre parole, ogni volta che di fronte ad un errore riusciamo a trovare il modo di migliorare il nostro saper fare e noi stessi, proviamo emozioni positive che ci indurranno sempre di più a dare all’errore il valore positivo come fronte di crescita e progresso.

In conclusione, quindi, possiamo affermare che:

l’arte di sbagliare consiste nell’agire sull’esperienza prendendo consapevolezza dell’area di responsabilità che abbiamo in relazione all’evento critico, fidandoci del fatto che riconoscendo nostre alleate le emozioni che proviamo possiamo non ricadere nello stesso sbaglio ma trovare nuovi modi per risolvere le difficoltà

Note bibliografiche

Bandura A. (1997), Autoefficacia, Erikson, Trento

Calvenzi a., Orlando R., (2013), Il paradosso del successo. Tutto quello che bisogna perdere per poter vincere, Milano, Ponte alle Grazie editore.

Czerwinsky Domenis L., (2005) Un errore utile. trasformare gli sbagli in opportunità di apprendimento, Trento, Edizioni Centro Studi Erickson.

Damasio A., (1994), DescartesError: Emotion, Reason, and the Human Brain, New York, Grosset/Putnam; trad.it. (1996) Lerrore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Milano, Adelphi.

Goleman D., (1995), Emotional intelligence, Bantam Dell, New York; trad.it. Intelligenza emotiva: che cos’è e perché può renderci felici, (1996), Milano, Rizzoli.

Goleman D., (2007) Intelligenza sociale, Milano, Ed. BUR.

Goleman D., (2015) Intelligenza sociale ed emotiva. Nell’educazione e nel lavoro., Trento, Edizioni Centro Studi Erickson.

Lucangeli D. (2019), Cinque Lezioni Leggere sull’Emozione di Apprendere, Erikson, Trento

Maùti E., (2013) Sbagliando si impara. Trasformare il fallimento in una risorsa si può., Firenze, Giunti editore.

Rogers C.R., (1961), On Becoming a Person. A Therapists View of Psychotherapy, Houghton Miffin Harcourt Publishing Company; trad.it. (2013), La terapia centrata-sul-cliente, Milano, Giunti editore.

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Rosemberg M. B., (2011), Comunicare con empatia, Reggio Emilia, Ed. Esserci.

Arte by Catucci, Stefano – domenica, marzo 16, 2014 http://www.wikitecnica.com/arte/

Sant’Agostino DIpponia, (1994), Sermoni per i tempi liturgici, editori Paoline Editoriale Libri

 

Il vantaggio della paura

Il vantaggio della paura

La paura è la <migliore amica>, insieme a lei potete fare tutto quello che volete, senza farvi male. Correre senza inciampare. Saltare senza cadere. Rotolare senza sbattere.

È questo, o qualcosa di molto simile, che dico ai bambini, quando spiego loro i vantaggi  della paura durante il mio laboratorio sull’intelligenza emotiva.

Paura

paura

Qual’è la funzione della paura?

Se tutte le emozioni hanno la funzione di migliorare la nostra performance, il senso della paura è quello di proteggerci e prepararci ad affrontare gli ostacoli con resilienza. Essa tiene al sicuro l’essere vivente, mentre procede nel suo percorso verso la piena realizzazione di sé e del proprio potenziale.

Uomini, donne; giovani, anziani; ignoranti, colti; poveri, ricchi; tutti, indipendentemente dall’età, dal genere di appartenenza, classe sociale o cultura di provenienza, proviamo Paura.

Appartiene alla famiglia delle emozioni primarie e viene attivata in risposta ad uno stimolo percepito come pericoloso che può essere reale, immaginario, legato ad un ricordo o evocato da una previsione basata su un’esperienza pregressa.

Scappo, mi mimetizzo o attacco?

Che sia una tigre, un leader autoritario o il fallimento, quando ci sentiamo minacciati, il nostro corpo produce adrenalina: un ormone che induce delle modificazioni a livello fisico e mentale per predisporci all’azione.

Cosa facciamo quando abbiamo paura?

Dipende dalla nostra storia personale.

Durante il percorso di crescita, in base alle situazioni che affrontiamo, all’educazione che riceviamo, ai modelli culturali di riferimento, ai condizionamenti dell’ambiente relazionale nel quale viviamo, ognuno di noi struttura modalità di risposta differenti. Sviluppiamo, cioè, delle abitudini di comportamento; delle risposte che diventano automatiche con la ripetizione. Siamo portati a ripeterle in quanto, almeno inizialmente, funzionano.

Il meccanismo di coping che sviluppiamo in risposta alla paura è importante perché grazie ad esso risparmiamo tempo ed energie mentali necessarie all’elaborazione delle informazioni che captiamo dal nostro ambiente di vita.

Di fronte ad un incendio o ad un tentativo di aggressione o rapina, il tempo di reazione può significare vita o morte. Investire tempo per pensare alla migliore strategia di azione non è conveniente!

Reagire automaticamente, in tempi rapidi è funzionale alla sopravvivenza e al successo.

Quindi, in risposta alla paura, diventeranno abituali quei comportamenti che metteremo in atto più frequentemente e che avranno esito favorevole: disinnescare il pericolo.

La ripetizione dell’esperienza li rende, poi, automatici; li agiamo, cioè, senza esserne consapevoli e, spesso, senza averne l’intenzione.

Un bambino che prova paura in un ambiente buio; in concomitanza con un rumore forte e sconosciuto; quando resta da solo, tenderà a ripetere il comportamento che più velocemente lo rassicura rispetto al pericolo e che è approvato dagli adulti di riferimento.

Tommaso corre a rifugiarsi tra le braccia di mamma.

Ginevra piange, urla e tira calci.

Filomena fa finta di niente e dice di non avere paura.

Quando Tommaso, Ginevra e Filomena crescono, cambiando le condizioni o il contesto di vita e di lavoro, può succedere che quei comportamenti non siano più necessari o diventino addirittura disfunzionali.

Quindi per il benessere individuale è importante riconoscere la paura, ma essere in grado di modificare o interrompere le abitudini di comportamento, quando diventano disadattive, abbinando all’emozione un comportamento vincente in termini di risultati e approvato socialmente.

Di fronte ad un’opportunità di carriera:

Tommaso dovrà imparare ad affrontare e superare le sfide in autonomia;

Ginevra a canalizzare lo stress in strategie operative;

Filomena ad accettare, riconoscere e utilizzare la sua paura per visualizzare ciò che la ostacola e capire come superarlo.

Eppure …

… se pensiamo ai supereroi che vengono proposti ai bambini come modelli di comportamento, vediamo che vengono rappresentati come impavidi e senza paura. Affrontano pericoli e si lanciano contro le avversità con temerarietà e sicurezza.

Il vantaggio della paura

In realtà, si è coraggiosi solo quando si prova paura per qualcosa o qualcuno.

Superare un test, fare una dichiarazione d’amore, sottoporsi ad un intervento chirurgico, investire in un’impresa, sono tutte situazioni che richiedono coraggio, perché ci espongono a rischi di errori o fallimenti. Provare paura in queste circostanze è funzionale in quanto grazie a questa emozione possiamo prenderci il tempo e lo spazio per valutare tutte le opzioni che abbiamo a disposizione e fare scelte consapevoli; per valutare i rischi di errori o fallimenti e progettare piani “B”; prevedere le conseguenze a breve e lungo termine e contenerle. E’ il vantaggio della paura.

A proposito di supereroi, mi viene in mente Ralph Supermaxieroe, interpretato negli anni ’80 da William Katt. Tutte le volte che doveva volare per intervenire e risolvere una situazione, moriva dalla paura. Un vero eroe è chi, insieme alla sua paura, affronta situazioni pericolose cercando di fare del suo meglio per aiutare sé stesso e gli altri intorno a lui.

Quindi per concludere:

facciamo amicizia con la nostra paura, impariamo ad amarla e teniamola vicino.

Quando è presente alla nostra consapevolezza possiamo uscire dalla zona di comfort e avventurarci nel cambiamento.

Resilienza. Scopriamone di più.

Resilienza. Scopriamone di più.

Imprevisti, cambiamenti, crisi, sfide sono ingredienti fondamentali della vita di ciascuno di noi. Crescere, realizzare sé stessi, i propri sogni vuol dire attraversare errori, sperimentare fallimenti, superare ostacoli.

Prenderne atto è il primo passo per farvi fronte; una rete di salvataggio senza la quale rischieremmo di soccombere alla prima occasione. Carl Rogers la chiamava “Tendenza attualizzante”, la spinta intrinseca di ogni organismo a realizzarsi, conservarsi e migliorarsi.

Sto parlando di resilienza, scopriamone di più.

Che cos’è?

Un costrutto che interessa più discipline scientifiche: metallurgia, biologia, fisica, ingegneria, medicina, neuroscienze, psicologia e molte altre ancora.

In generale, prendendo spunto dalla sua etimologia (dal latino “resalio”, rimbalzare), possiamo identificare la resilienza come la capacità della materia vivente di conservare la propria struttura dopo essere stata sottoposta a pressioni ambientali, ripristinando l’equilibrio precedente.

In pratica?

Avete in casa una spugna? Andate a prenderla.

Bene, trattatela male! Schiacciatela, storcetela, tiratela, accartocciatela!

Fatto? Ora lasciatela andare e osservate il suo comportamento. Cosa è successo alla vostra spugna? Molto probabilmente, nel giro di poco tempo, avrà recuperato la forma che aveva prima che voi la sottoponeste a stress. La spugna è un materiale resiliente. Se aveste fatto la stessa cosa con un foglio di carta o un’attache, il risultato sarebbe stato molto diverso.

E quando si tratta di persone?

Bambino o adulto che sia, la resilienza dell’essere umano consiste nella capacità di prendere coscienza della difficoltà, dello stress, del trauma che si sta vivendo; tollerare la frustrazione che ne deriva, per fronteggiare al meglio la situazione al fine di ripristinare, migliorandolo, l’equilibrio bio-psico-sociale precedente.

genitore che lavora da casa

Cioè?

Se sono un bambino, dover fare i compiti a casa può essere un fattore di stress in quanto i miei insegnanti e i miei genitori mi chiedono di fare una cosa che io non so fare e di farla bene. Avere l’opportunità di stare davanti al mio quaderno senza sapere cosa fare, mi consentirà di contattare la frustrazione legata al senso di inadeguatezza. Le mie emozioni mi aiuteranno a prendere coscienza di non sapere e di non saper fare, attivando la mia resilienza al fine di uscire dalla situazione di crisi e abbassare i livelli di stress. Se l’ambiente è facilitante, ne uscirò fortificato, quanto meno per aver ampliato le mie conoscenze.

Se sono un adulto alle prese con lo smart working, improvviso e prolungato dovuto ad una pandemia, sarò sottoposto ad alti livelli di stress legati alla gestione del cambiamento delle abitudini di vita e di lavoro. Sentire il disagio mi aiuterà a rendermi conto del problema in atto. La mia resilienza mi porterà a chiedermi che cosa posso fare, attivandomi ad agire comportamenti funzionali per ritrovare un nuovo equilibrio.

bambino che fa i compiti

Resiliente si nasce o si diventa?

La resilienza è presente in potenza in tutti gli esseri umani fin dalla nascita. Non è, però, un tratto stabile di personalità. Si tratta di una vera e propria abilità, il cui sviluppo è legato al sano sviluppo bio-psico-sociale della persona. Essa deve essere educata ed allenata nel corso di tutta la vita.

In presenza di una crisi o evento stressante – acuto o cronico che sia – ciò che determina la qualità della nostra resilienza è, infatti, la qualità delle soft skills personali e dei legami costruiti e rafforzati fino ad allora.

Essere resiliente significa:

  • essere consapevoli dei propri attuali bisogni e dei propri limiti;
  • saper riconoscere e stare con le emozioni che si provano momento per momento;
  • Avere un focus di valutazione interno e fidarsi di potercela fare di fronte alle difficoltà – vederle come una componente inevitabile della vita, ma transitoria, circoscritta e dovuta al concorso di più fattori;
  • essere capaci di autoregolare il proprio comportamento, tollerando la frustrazione e differendo la gratificazione del qui-ed-ora per perseverare nel raggiungimento dei propri obiettivi.

Educare alla resilienza è importante quanto essere resilienti!

Che io sia genitore, insegnante o team leader le mie scelte avranno l’effetto di facilitare o ostacolare la resilienza delle persone che a me fanno riferimento.

Se costruisco un’ambiente relazionale facilitante, mio figlio, il mio studente, il mio team avrà l’opportunità di sperimentare e allenare la sua resilienza, rafforzandola esperienza dopo esperienza.

Riprendiamo l’esempio di prima.

Se sono il genitore di quel bambino che è in difficoltà con i compiti a casa, lo educherò alla resilienza ogni volta che riuscirò a fidarmi della sua capacità di tollerare il senso di inadeguatezza e la frustrazione di fronte al quaderno. Quando confido che lui/lei, con i suoi tempi e con le sue emozioni, riuscirà ad attivare la competenza di problem solving e trovare il suo personale modo di uscire dalla difficoltà, gli starò dando l’occasione di attivare la sua abilità. Per fare questo devo essere disposto a mettere il mio bisogno di “bravo” genitore, in secondo piano rispetto al suo bisogno di crescere e realizzare sé stesso. Devo essere io, per primo, capace di tollerare la mia frustrazione rispetto all’incompetenza di mio figlio. Devo essere capace di non sostituirmi a lui facendo il compito al suo posto o suggerendogli cosa deve fare. Devo, piuttosto, stare al suo fianco, sostenendolo, nell’attesa che sia lui a trovare la sua soluzione al problema (che detto tra noi è perfettamente calibrato per la sua età).

In sostanza, la vita quotidiana con le sue piccole e grandi sfide, con gli imprevisti, gli errori, le occasioni di confronto e conflitto ci offre mille occasioni per educare alla resilienza noi stessi e le persone con le quali viviamo e lavoriamo. Non abbiamo che l’imbarazzo della scelta.

Oltre a ciò, per educare alla resilienza è possibile creare dei contest formativi ad hoc – come seminari, corsi, laboratori – e mettere a disposizione libri e riviste. Teniamo presente, però, che la resilienza non si apprende in teoria, ma si pratica nel quotidiano.

Concludo questo breve articolo con le parole di C. S. Lewis:

“Le difficoltà spesso preparano le persone normali ad un destino straordinario”.

#IOUSOBENEILMIOTEMPO

#IOUSOBENEILMIOTEMPO

Facilitiamo i nostri figli a vivere un tempo di qualità

C’è chi, come David Allen, decide di scriverci un libro e farne il business della vita. Ci sono aziende grandi e piccole che investono in programmi di formazione per le risorse umane. Chi sviluppa software e applicazioni; chi scrive articoli; chi organizza convegni. Il Time management è un tema di grande interesse e attualità. 

Partito nell’ambito professionale come strumento per ottimizzare la produttività, l’interesse per l’abilità di organizzare il proprio tempo ha investito oggi la dimensione privata in quanto riconosciuta fondamentale per una vita di qualità.

Essendo un trainer esperto nel potenziamento delle soft skills, mi è capitato spesso di condurre corsi sulla “Time management” per aziende grandi e piccole. 

Interessante! Vorrei , ma non posso. Non ho tempo… 

Molte delle persone che ho incontrato, sebbene lamentassero scontento per il loro abituale modo di gestire gli impegni e manifestassero interesse verso i nuovi strumenti proposti, hanno dichiarato una difficoltà/impossibilità ad implementarli nel quotidiano a causa – appunto – “del poco tempo disponibile”.

Oggi, 13 marzo 2020, ai tempi del Corona Virus abbiamo tutti un sacco di tempo a disposizione. Quale migliore occasione per allenare questa competenza così importante per il nostro successo personale e professionale? Che splendida opportunità per insegnare ai nostri figli come utilizzare al meglio tale abilità!

Per insegnarla alla prole, infatti, dovremo prima di tutto agirla noi 🙂  Il modelling è una delle strategie pedagogiche più potenti ai fini dell’apprendimento significativo.

Il punto è: come?

Qual’è il modo migliore per farlo?

Se veramente vogliamo facilitare nostro figlio nell’apprendere come organizzare il tempo disponibile, la prima cosa da fare è mettere al centro il bambino/ragazzo. Quanti anni ha? Quali sono i compiti evolutivi e le competenze tipici della sua fase di sviluppo? Cosa lo interessa? Qual’è il codice di linguaggio che meglio comprende?

Il secondo passo consiste nel predisporre un ambiente di apprendimento sicuro, all’interno del quale il nostro apprendista possa muoversi in totale libertà. In questo modo potrà fare esperienza diretta con l’oggetto di apprendimento: il tempo. 

La sicurezza va intesa in senso biologico, affinché tuteli bioritmi e salute: ciclo sonno/veglia; alimentazione; igiene e simili. È opportuno, però, che l’ambiente di apprendimento sia sicuro anche da un punto di vista psicologico e relazionale. Va mantenuto, cioè, libero dal giudizio così che al suo interno nostro figlio possa sentirsi sollevato dall’ansia da prestazione, accettato per la sua incompetenza, rispettato per le emozioni che prova. Il nostro ruolo, per dirla alla Bolby (1989, Raffaello Cortina Editore) funziona se è quello di fornirgli una base sicura dalla quale essere sostenuto nella generazione di idee originali e nella loro applicazione; con la quale condividere l’entusiasmo e l’orgoglio per i successi; grazie alla quale trovare conforto e contenimento per le emozioni legate a errori e fallimenti.

Facciamo degli esempi concreti.

Se nostro figlio/a è un bambino molto piccolo (0-6 anni) sarà importante dividere la giornata in sezioni, chiaramente riconoscibili grazie a vere e proprie routine. Potremo, ad esempio individuare spazi temporali dedicati al sonno, ai pasti, all’igiene, al gioco e utilizzare dei semplici rituali per aiutare il bambino a comprendere il passaggio da una situazione all’altra. Se i primi 3 momenti, in questa fascia di età, è vantaggioso siano gestiti dall’adulto, nello spazio temporale dedicato al gioco potremo sicuramente fidarci che il/la bambino/a sarà in grado di decidere quanto tempo dedicare ad un’attività piuttosto che ad un’altra.

Se ci relazioniamo con un adolescente (11 – 25 anni) le cose cambiano. Tolti alcuni momenti di attività condivise dall’intera famiglia, per i quali la gestione del tempo è necessariamente etero-determinata, in questo caso nostro figlio è pronto (anche da un punto di vista neurologico) ad imparare come organizzare la sua giornata-settimana-agenda. 

Molto probabilmente all’inizio sarà spaesato dall’abbondanza del tempo a disposizione e – soprattutto – dall’assenza di indicazioni-consigli-ordini-giudizi. Secondo il principio di attacco/fuga, potrebbe tentare di riempirlo in modo compulsivo di tutte le cose che gli passano per la testa; oppure aggrapparsi disperato alle vostre caviglie implorandovi di dirgli cosa deve fare. Altra concreta possibilità è che lui resti immobile, impantanato nel tempo disponibile, arenato su un letto o su un divano, con lo sguardo perso nel vuoto o nello schermo di un attrezzo elettronico.

In tutti questi casi il vostro ruolo è determinante! 

Accrescerete in lui/lei autostima e autoefficacia se sceglierete di “stare senza intervenire” fattivamente. Inviategli, piuttosto, concreti messaggi di fiducia sulle sue competenze. Messaggi centrati soprattutto sul non verbale e congruenti tra ciò che dite e come agite.

Certo la sfida è sospendere il vostro giudizio; gestire le vostre emozioni. Frustrazione, fastidio, noia, disappunto, preoccupazione, delusione, ansia, gelosia, invidia, rabbia: qual’è la vostra? Io ce l’ho tutte!!!

La parola d’ordine è FIDUCIA. 

Fidatevi che contattare la noia, aiuterà la persona che amate di più al mondo e che volete aiutare a diventare adulta ad attivare pensiero laterale e problem solving. Fidatevi che quell’essere è un essere resiliente fatto per autorealizzarsi e relazionarsi positivamente con gli altri. La sua natura lo porterà fisiologicamente a non tollerare, oltre un certo limite, la frustrazione legata al vuoto. Si attiverà per riempirlo, quel vuoto. Magari guardandosi intorno si accorgerà di voi, incuriosito vi prenderà a modello. Se si fida che non lo giudicherete, che non tenterete di togliergli potere, potrebbe avvicinarsi e chiedere il vostro aiuto. 

Aiuto? A me? E adesso che faccio?

Potrei rispondere: “ Te l’avevo detto!” pensando “Non aspettavo altro” – con un ghigno soddisfatto e giudicante. Risultato? Avrò mandato in fumo tutto il lavoro fatto.

Meglio utilizzare il tempo che abbiamo a disposizione per prepararci all’evento.

Leggi #giococoniltempoperimparareagestirlo

Genitori Efficaci in 4 mosse

Genitori Efficaci in 4 mosse

 

 

 

 

 Come costruire una relazione efficace e duratura con i propri figli in 4 mosse

 

 

 Da quando sono diventata mamma non passa giorno senza che io riprometta a me stessa di impegnarmi al massimo per essere utile a mio figlio Gabriele. Per riuscire, cioè, a fare/dire le cose “giuste” per sostenerlo nel suo percorso di crescita verso la maturità ed aiutarlo ad apprendere comportamenti e valori utili a superare con successo le piccole e grandi sfide quotidiane.

 

 

 Cuoca, cameriera, tuttofare, autista, bodyguard, consigliera, coach, estetista, bancomat, velocista, multitasking…

 

 

 … sono soltanto alcuni degli svariati ruoli che interpreto nell’arco delle ore giornaliere nel tentativo di essere la “mamma perfetta”.

 

 

 Risultato?

 

 

 Mi ritrovo spesso a provare una sensazione di inadeguatezza.

 

 

 Uno spiacevole, leggero, sottile, latente senso di colpa. A volte legato all’incertezza: avrò fatto le scelte giuste? Altre volte dovuto all’idea di non aver fatto abbastanza; che avrei potuto fare di più; impegnarmi di più. Per non parlare poi delle situazioni in cui mi rendo conto di aver agito comportamenti e scelto parole contrari ai miei valori.

 

 

In effetti nutro nei confronti di me stessa precise aspettative: in quanto persona in generale e come mamma in particolare.

 

 

L’obiettivo in qualità di genitore, è Fare la differenza! “essere capace di arrivare al risultato”: che, nello specifico consiste nell’aiutare Gabriele a realizzare pienamente sé stesso come individuo e come membro di una comunità. Intendo essere per mio figlio, una persona significativa: per la sua crescita e per il suo apprendimento. In poche parole: voglio essere un genitore efficace.

 

 

Ma, quali caratteristiche deve avere un genitore efficace?

 

 

Rispondo a questa domanda facendo riferimento a quanto raccomandato dal dr. Thomas Gordon nel suo famoso metodo Parent Effectiveness Training. Un metodo educativo i cui effetti positivi sulla crescita dei ragazzi e sulla qualità della relazione famigliare sono ben documentati da numerosi studi sul campo svolti in tutto il mondo.

 

 

Secondo questo metodo, noto in Italia come Genitori Efficaci, un genitore può dirsi tale quando:

 

 

  •  Aiuta il figlio alle prese con una difficoltà, lasciando a lui la responsabilità di trovare la soluzione;
  • Si confronta in modo autentico con il comportamento del figlio quando è inappropriato o disfunzionale
  • Risolve i problemi con equità, applicando la filosofia del “vincere insieme” per risolvere i conflitti famigliari
  • Condivide i suoi valori nel pieno rispetto di quelli degli altri.

 

 

 

 

    Vediamo queste 4 competenze nel dettaglio.

     

     

    Il genitore efficace aiuta il figlio a trovare la sua soluzione.

     

     

    Il sogno della maggiorate dei genitori che ho incontrato nel corso dei 15 anni di attività professionale sul campo (me compresa!), è fare in modo che il proprio figlio sia sempre sereno e non debba mai incontrare difficoltà o problemi di sorta.

     

     

    Pura illusione. Tra l’altro immaginate quanto sarebbe noiosa la vita se non incontrassimo mai situazioni difficili con cui confrontarci o ostacoli da superare.

     

     

    Eppure sovente mi capita di vedere un genitore intervenire al parco giochi per quietare una lite tra bambini che non vogliono cedere il posto sull’altalena, o condividere un giocattolo. Quanto spesso leggo nelle chat scolastiche, messaggi di mamme che si informano su quali e quanti compiti assegnano maestre e professori. Quante volte osservo genitori scrivere e inviare curricula con l’intento di aiutare il proprio figlio a trovare lavoro.

     

     

    Ogni volta che, spinti da buoni propositi, sgombriamo dagli ostacoli il percorso dei nostri ragazzi, ogni volta che indichiamo la strada da prendere o ci sostituiamo a loro nel risolvere un conflitto, li rallentiamo privandoli dell’opportunità di allenare la competenza decisionale facendo esperienza con il limite, la difficoltà, l’errore e tutte le emozioni che l’accompagnano.

     

     

    Quando, piuttosto, scegliamo di fidarci del loro potere personale, della capacità che hanno di apprendere dall’esperienza e di attivare le abilità di self-efficacy e problem solving, allora succede che i nostri figli sviluppano autonomia fortificando il senso di autoregolazione e di responsabilità verso le scelte che compiono.

     

     

    Qual’è, allora, il ruolo del genitore? Dovremmo forse, abbandonarli a loro stessi?

     

     

    Un genitore efficace, afferma Thomas Gordon, in tali occasioni è autenticamente interessato e disponibile ad ascoltare il proprio figlio con attenzione e partecipazione. Un ascolto che nasce dal rispetto profondo per le emozioni che il ragazzo prova. Un ascolto libero dal giudizio, che si da come obiettivo “facilitare l’altro a prendere consapevolezza dei propri bisogni, valori e aspettative” e – in base a quelli – individuare la soluzione migliore a breve, medio e lungo termine.

     

     

    Thomas Gordon chiama questo stile Ascolto Attivo e ne da una descrizione dettagliata nel libro Genitori Efficaci, edito da La Meridiana.

     

     

    Il genitore Efficace sa confrontarsi in modo autentico.

     

     

    Oggi Gabriele ha 18 anni.

     

     

    Fin da quando cercavo di dirgli a che ora andare a letto, come e quando mangiare, lavarsi, giocare, non è mai stato semplice insegnargli regole o aiutarlo ad apprendere abitudini funzionali al suo benessere. Spinto dai compiti di sviluppo, non ha fatto sconti, dandomi filo da torcere con i suoi numerosi NO e tentativi di forzare il limite.

     

     

    Quando aveva circa tre anni, mi sentivo scoraggiata e disorientata. Le cose non andavano come previsto! Ero indignata con me e intimorita dal giudizio altrui.

     

     

    Caso volle che per motivi professionali frequentai un corso Effectiveness Training nella versione dedicata agli insegnanti (corso accreditato al MIUR e valido per la Legge 107). Provai ad applicare con mio figlio gli strumenti di comunicazione assertiva, suggeriti dal metodo e FUNZIONAVANO! Mi accorsi che parlare a Gabriele utilizzando gli I-Message, lo aiutava non solo ad apprendere, ma soprattutto a comprendere e fare suoi quei comportamenti che io volevo che adottasse. Conoscere il metodo Genitori Efficaci mi ha ridato fiducia come mamma! Mi ha fatto sentire meglio con me stessa. Meno spaventata di sbagliare. Tanto che ho deciso di condividerne la conoscenza con altri genitori diventando Gordon Trainer IACP.

     

     

    La dimensione educativa è una componente fondamentale dell’identità genitoriale. I bambini alla nascita sono completamente dipendenti dalle figure adulte di riferimento per soddisfare i loro bisogni di sopravvivenza, sicurezza, relazione e realizzazione. Crescerli sani vuol dire accompagnarli in un percorso verso una sempre maggiore capacità di scegliere e agire autonomamente comportamenti funzionali al benessere. La strada verso l’indipendenza è tanto più agevole e lineare, quanto più il genitore sa costruirla su un sistema di regole che rappresentano per il figlio limiti chiari e indicazioni di comportamento all’interno dei quali muoversi, esplorare, sbagliare e apprendere.

     

     

    Un genitore efficace condivide con il figlio quali comportamenti ritiene appropriati nei differenti contesti e momenti della quotidianità, scegliendo uno stile di comunicazione chiaro e comprensibile. Comunica regole, limiti e conseguenze con un linguaggio in prima persona, congruente tra verbale e non verbale. Costruisce frasi scegliendo con cura parole e atteggiamenti capaci di generare nella relazione emozioni gratificanti che hanno un alta probabilità di costruire intorno alla regola, consenso e fiducia.

     

     

    Quando il figlio agisce in modo inappropriato, un genitore efficace sa confrontarsi in modo autentico. Con assertività, invia al figlio un messaggio che descrive dettagliatamente il comportamento disfunzionale; quali emozioni quell’agito suscita nel genitore e perché. In linea con l’obiettivo di promuovere e rafforzare il senso di autoregolazione e responsabilità del bambino/ragazzo, tale messaggio di confronto non contiene giudizi sulla persona che ha sbagliato ed ha una bassa probabilità di mettere a rischio la relazione.

     

     

    Il genitore efficace risolve i conflitti con equità.

     

     

    Quando una relazione tra 2 o più persone è breve e di scarsa importanza per chi ne è coinvolto, è possibile che non si verifichino contrasti o conflitti durante il suo corso.

     

     

    La relazione genitore/figlio – come del resto in generale tutte le relazioni famigliari – è di lunga durata e implica un grande coinvolgimento sentimentale per i protagonisti.  In una relazione di questo tipo le differenze, legate all’età e ai bisogni evolutivi, ai valori, alle aspettative in base al ruolo, spesso si traducono in divergenze di opinioni. Quando la relazione è sana e fondata su un clima di fiducia e di rispetto reciproco, le persone si sentono libere di sostenere il proprio punto di vista attivando il confronto.

     

     

    Il punto non è evitare l’esperienza del conflitto, ma gestirlo costruttivamente così da renderlo generativo di opportunità di crescita ed evoluzione per la relazione stessa.

     

     

    Mi piace pensare a mio figlio Gabriele come ad un coach che, confrontandomi su decisioni e limiti, mette alla prova i miei valori e le mie convinzioni con il risultato di rafforzare in me le abilità di relazione e risoluzione dei conflitti. Allo stesso tempo lui stesso affina le sue competenze relazionali e di gestione dei conflitti grazie ai miei NO che lo aiutano a crescere 😉 Ogni volta che succede ne usciamo rafforzati, consapevoli che continuiamo ad amarci pur nelle nostre differenze e che è possibile – anche se tanto, tanto difficile – trovare una soluzione che piaccia ad ad entrambi.

     

     

    Spesso, però, ci succede che il confronto si trasforma in un vero e proprio conflitto dove uno dei due vuole, tenta, cerca di vincere sull’altro; di portare a casa il risultato. Di solito la spunta chi ha più potere; ma la verità è che ci stiamo male entrambi. Proviamo malumore, delusione, scontento, senso di inadeguatezza, rimorso, rivalsa, frustrazione. Una serie di emozioni, insomma, che generano disagio tanto in me quanto in Gabriele.

     

     

    Capita anche a voi?

     

     

    Il genitore efficace, dice Gordon, usa il conflitto come opportunità per il figlio di fare esperienza e apprendere la gestione costruttiva di situazioni critiche che coinvolgono più persone. Egli si assume in pieno la responsabilità della ricerca di una soluzione equa che tenga conto dei bisogni e dei valori di tutti i familiari coinvolti. Non delega tale responsabilità al figlio, ma si erge a modello di comportamento per coltivare e trasmettere il valore della cooperazione e dell’alleanza.

     

     

    Uso del potere, evitamento, compromesso, negoziazione, sono alcune delle più note conflict resolution skills. Ognuna di queste è fondata sulla competizione tra i soggetti coinvolti, visti – possiamo affermare a scopo esemplificativo – come io/tu. L’apprendimento che passa è una certa diffidenza nella relazione in quanto, in caso di discordia, sarà chi è più forte o più capace a vincere sull’altro; al quale non resta che adattarsi o sopportare. Adattamento e sottomissione sono due condizioni che hanno come effetto a medio lungo termine malessere e distress. Essendo la relazione genitore figlio, una relazione a lunghissimo termine, utilizzare troppo spesso tali tecniche inquina il clima famigliare e incrina l’alleanza.

     

     

    Vale la pena rischiare?

     

     

    Gordon nel suo Genitori Efficaci (2006, La Meridiana) propone come tecnica di risoluzione del conflitto un metodo basato sulla filosofia del vincere insieme. Noto in tutto il mondo come WIN-WIN, consiste nell’uso della tecnica del problem solving come corsia preferenziale per trovare una soluzione al conflitto. Partendo da una relazione di fiducia fondata sull’alleanza educativa tra genitore e figlio, l’Autore afferma che ogni qual volta due persone entrano in contrasto perché reciprocamente il comportamento dell’uno minaccia la soddisfazione di un bisogno per l’altro, è possibile “cercare fino a trovarla” una soluzione che sia pienamente soddisfacente per entrambi.

     

     

    Il genitore, essendo l’adulto, assume si di sé la responsabilità del buon esito dell’esperienza. Egli usa l’ascolto attivo per comprendere profondamente i bisogni e i valori del figlio, verificando il suo intendimento. Comunica utilizzando una comunicazione assertiva, chiara e congruente, mai giudicante, i propri bisogni e valori al figlio, assicurandosi che li abbia effettivamente compresi. Facilita il bambino/ragazzo – e contribuisce – a immaginare creativamente soluzioni originali al problema. Coinvolge direttamente il figlio nella valutazione e nella scelta della soluzione migliore, progettandone la messa a terra e stabilendo criteri di verifica dell’efficacia.

     

     

    Ogni volta che come mamma ho seguito questi 6 passaggi, mi sono presa il potere di trasformare il conflitto in un’esperienza gratificante che ha avuto come effetto educare Gabriele all’empatia, al rispetto reciproco e alla cooperazione.

     

     

    Il genitore efficace condivide i suoi valori nel rispetto di quelli degli altri.

     

     

    Sto scrivendo questo articolo in un particolare momento storico. È il tempo del COVID-19. Una fase in cui le società occidentali moderne fondate sui valori dell’individualismo, dell’interesse privato e del massimo guadagno, si trovano ad aver bisogno del senso di responsabilità sociale, della capacità empatica di interesse verso l’altro e della volontà di cooperazione per sconfiggere un virus sconosciuto in una corsa contro il tempo.

     

     

    Io sono cresciuta coltivando valori cristiani come la condivisione, il bene comune, il rispetto reciproco, la fiducia nell’essere umano. Non è casuale che mi sia formata nell’ambito dell’Approccio Centrato sulla Persona di Carl Rogers. Non è fortuito che io abbia scelto di costruire le mie relazioni e comunicare con il metodo Gordon, piuttosto che con altre filosofie come la Programmazione Neuro-linguistica (PNL). Non è affatto difficile per me accogliere con rispetto e serietà le richieste del Presidente del Consiglio Dei Ministri quando ci coinvolge invitandoci all’autoregolazione e al cambiamento delle abitudini per il bene comune.

     

     

    Non posso dire lo stesso per Gabriele: 18 anni; nel pieno della seconda adolescenza, fase durante la quale il bisogno di relazione in generale e con il gruppo di pari in particolare è prioritario. Momento della crescita in cui l’affermazione del sé è la via maestra per costruire l’identità adulta e passa per il contrasto all’autorità e il superamento del limite.

     

     

     

     

    Gabriele, cresciuto in una società per la quale essere narcisisti è normale (nel senso statistico del termine); in una cultura fondata sulla prestazione e la competizione.

     

     

    Per Gabriele non è semplice. Non capisce. È arrabbiato, diffidente, offeso, frustrato, disorientato. Noi adulti gli stiamo chiedendo di fare un salto, senza paracadute, dall’IO al NOI.

     

     

    Noi? Che vuol dire noi? Chi siamo noi?

     

     

    Siamo di fronte ad una divergenza di valori. Inconsapevole, lui – consapevole Io. Cosa fare?

     

     

    Potrei mettermi in cattedra e moralizzare enunciando i principi cristiani, facendolo sentire inadeguato e in colpa per la sua superficialità …

     

     

    Cosa otterrei?

     

     

    Il genitore efficace, condivide i suoi valori nel pieno rispetto di quelli degli altri:

    • agendo lui stesso secondo quei valori;
    • ponendosi come modello e garante della bontà di quei valori;
    • insegnandone le ragioni, i presupposti e dimostrandone i risultati;
    • rendendosi disponibile come consulente per facilitare il figlio a scegliere liberamente i suoi valori;
    • ascoltando con comprensione ed empatia il figlio, fiducioso che lui saprà fare la scelta giusta.

    Per concludere, un genitore efficace ha nel suo repertorio queste 4 competenze. Forse possono sembrarvi complicate da mettere in pratica. Per esperienza personale, posso dirvi però, che i risultati positivi che si raccolgono nella ménage familiare sono più che sufficienti a motivarci verso il cambiamento di abitudini comunicative facilitando il passaggio dai metodi tradizionali di aiuto e confronto a stili che funzionano di più.

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    Quando accettare i figli significa aiutarli a crescere sereni

    Quando accettare i figli significa aiutarli a crescere sereni

    Che una mamma o un papà accettino i propri figli per le persone che sono può sembrare scontato. Bambini, adolescenti o giovani adulti … … succede però che i nostri figli si comportino a volte in modi che ci sorprendono; che non ci aspettiamo; che reputiamo sconvenienti; poco funzionali al contesto; non in linea con i principi educativi che cerchiamo di insegnare loro. In questi casi i sentimenti che contattiamo sono di disappunto, rabbia, imbarazzo, fastidio e simili.

    Cosa succede allora? Provare questi sentimenti significa forse non accettarli?

    In realtà ciò che proviamo non è rivolto alla persona di nostro figlio. Il sentimento di non accettazione è suscitato dal singolo comportamento che – in quel momento e in quel contesto – Egli sta mettendo in atto. Provare quelle emozioni e contattarle – ossia essere consapevoli di ciò che sentiamo – è un’abilità fondamentale che sarà opportuno coltivare se vogliamo essere un genitore efficace! Tale abilità fa parte della nostra intelligenza emotiva (Gottman, 1997) e ci permette di: accorgerci che nostro figlio agisce un comportamento inefficace al suo benessere bio-psico-sociale; segnalargli che ciò che sta facendo non funziona; proporre un modello di comportamento socialmente accettato e funzionale al soddisfacimento del suo reale bisogno. Accettare i nostri figli, infatti, non significa accettare qualsiasi loro comportamento. Vuol dire, piuttosto, accettarli per ciò che sono. Significa accogliere i loro bisogni, i sentimenti che provano, i valori che orientano le loro scelte, il loro modo di interpretare la realtà quotidiana. Non significa certo accettare passivamente comportamenti inadeguati o socialmente sgraditi. Facilitare i figli a sostituire comportamenti disfunzionali con abitudini comportamentali sane è, anzi, uno tra i compiti fondamentali di una genitorialità efficace.

    Come si fa?

    L’accettazione o il rispetto profondo (Rogers, 1969; 1980) per il loro modo di essere è una condizione necessaria se vogliamo costruire e mantenere una relazione genitoriale di qualità attraverso la quale agire la nostra funzione educativa. La promozione della crescita dei nostri figli e del loro apprendimento di abitudini comportamentali funzionali al benessere proprio e della comunità di appartenenza (famiglia, gruppo dei pari, scuola, organizzazione professionale) (Zucconi, 2003), passa attraverso un rapporto di qualità. Un’alleanza educativa, cioè, nell’ambito della quale il genitore usa le proprie conoscenze, competenze e abilità di relazione e comunicazione per valorizzare al massimo le risorse personali del proprio figlio. Quando la relazione beneficia dalla componente dell’accettazione, il figlio attiva un processo di cambiamento che lo porta, passo dopo passo, ad assumersi pienamente la responsabilità delle scelte che compie in vista della propria realizzazione; ad usare l’empowerment per il proprio benessere, che in nessun caso prescinde dal benessere del suo ambiente di vita.

    Ma, cosa significa accettare?

    Una cosa è provare sincera accettazione per il modo di essere dei figli; ben altra cosa è far loro sentire che li stiamo accettando. Questa variabile avrà una concreta influenza sui nostri ragazzi soltanto se e quando il sentimento di accettazione sarà per loro riconoscibile, chiaro e percepito come autentico. Infatti, non si può mai avere certezza di essere accettati da qualcun altro finché quest’ultimo non lo dimostra attivamente attraverso la comunicazione non verbale e verbale. Di contro, la maggior parte dei genitori tende a dare per scontata tale variabile; a considerare l’accettazione come una componente passiva della relazione famigliare: uno stato mentale, un’attitudine, un sentimento. In effetti l’accettazione è una qualità che appartiene al genitore in quanto persona, ma, affinché abbia un effettiva influenza sull’altro, deve essere comunicata attivamente. (Gordon Training International, 2018)

    Cosa serve per comunicare attivamente accettazione?

    I professionisti della relazione di aiuto sono ben consapevoli del fatto che l’accettazione sia una qualità necessaria all’efficacia del ruolo di helper. Counsellor, insegnanti, assistenti sociali investono anni e risorse nell’apprendimento e potenziamento delle abilità di comunicazione efficace necessarie a dimostrare accettazione ai loro clienti. Si tratta, sostanzialmente di integrare nelle proprie abituali e spontanee strategie comunicative, determinate modalità che funzionano in tal senso. La maggior parte dei metodi tradizionali di comunicazione, pur andando benissimo nella quotidianità delle relazioni interpersonali, hanno un effetto disfunzionale in determinati, specifici contesti. Numerose ricerche sul campo hanno dimostrato che, quando l’obiettivo è aiutare l’altro (a superare una difficoltà, nella crescita, nell’apprendimento di nozioni, regole o valori) è efficace scegliere di utilizzare strategie di comunicazione che “certamente” hanno un effetto benefico sulla qualità del clima relazionale. Modalità non verbali e verbali, che facciano sentire le persone accolte in una dimensione interpersonale rispettosa e libera dal giudizio all’interno della quale esse possano condividere le piccole e grandi difficoltà che vivono e i loro sentimenti autentici, rafforzando il senso di fiducia e autostima. I metodi che per storia o tradizione abitualmente usiamo per comunicare, di contro in tali contesti, tendono a far sentire gli altri giudicati o inadeguati. Tale clima porta le persone (sane) ad alzare barriere difensive, a chiudersi per proteggere il loro modo di essere bloccando la crescita e il cambiamento.

    Queste competenze funzionano anche nella relazione genitore-figlio?

    La relazione genitoriale è a tutti gli effetti una relazione di aiuto. In essa, infatti, il papà e/o la mamma (helper) aiutano i figli sostenendoli nel loro percorso di crescita e apprendimento verso lo sviluppo di una personalità sana e socialmente integrata. Esattamente come un counsellor professionista sceglie con cura cosa dire con l’intento di facilitare l’empowerment del proprio cliente, un genitore sarà di aiuto o di ostacolo al proprio figlio a seconda delle dinamiche di comunicazione che decide di agire. Allo stesso modo di un professionista della relazione di aiuto, un genitore che vuole essere efficace nel proprio ruolo deve apprendere come comunicare accettazione e acquisire identiche skills di comunicazione.

    E’ possibile per un genitore apprendere skills professionali di comunicazione efficace?

    L’abilità dell’accettazione può essere appresa attraverso specifici training formativi. Il corso Parent Effectiveness Training della G.T.I., di cui “Genitori Efficaci” è la versione italiana, insegna a noi genitori come comunicare meglio con i nostri figli. Il metodo che il dr Thomas Gordon ha sperimentato 56 anni fa con un gruppo di 17 genitori, oggi è uno dei modelli più accreditati per costruire relazioni famigliari fondate su principi democratici come il rispetto reciproco e la cooperazione (Gordon, 1970). In verità, molti genitori sono capaci di comunicare accettazione ai loro figli in modo spontaneo e intuitivo. Per questa categoria, detta degli “helper naturali” (Folgheraiter, 2011), è importante: acquisire consapevolezza della qualità che posseggono al fine di utilizzarla al massimo della sua potenza; rafforzare l’abilità attraverso il suo uso costante e la condivisione/confronto con altri genitori che vivono esperienze simili. Coloro che non possiedono tali competenze possono scegliere di apprenderle. Testi, webinar, corsi di formazione, scambio peer-to-peer con altri genitori: tante sono le possibili strade da percorrere in tal senso.

    Perché scegliere “Genitori Efficaci” metodo Gordon?

    Il corso Genitori Efficaci, ispirato all’Approccio Centrato sulla Persona di Carl Rogers ha dimostrato sul campo di poter effettivamente aiutare i genitori, e chiunque si prenda cura dell’educazione di un bambino, ad utilizzare abilità e strumenti di comunicazione efficace, accrescendo in famiglia la collaborazione reciproca e la risoluzione di problemi. Il metodo Parent Effectiveness Training favorisce la costruzione e il mantenimento di relazioni efficaci tra genitori e figli. In Italia e nella Svizzera italiana l’Istituto dell’Approccio Centrato sulla Persona (IACP) ha l’esclusiva del metodo ed è pertanto l’unico ente autorizzato da Gordon Training International a vendere e svolgere tali corsi e a certificarne formatori. Personalmente ho acquisito la certificazione nel 2012. Da allora ho condiviso questo percorso con centinaia di genitori, il che mi ha permesso e mi permette di versificare costantemente in prima persona l’utilità del metodo. Per saperne di più clicca quì

    Note bibliografiche

    Folgheraiter F., Cappelletti P., (2011), Natural Helpers. Storie di utenti e famigliari esperti, Erikson, Trento. Gordon T., (1970) P.E.T., Parent Effectiveness Training: The Tested New Way to Rise Responsible Children, New York, Peter H. Wyden Inc.; trad. it. Genitori efficaci. Educare figli responsabili, Molfetta, La Meridiana, 2001. Gottman J., (1997), The Heart of Parenting, RCS Libri, Milano; trad. it. (2015) Intelligenza emotiva per un figlio, Milano, Rizzoli Edizioni. Rogers, C. (1969), Freadom To Learn, Colombus, Ohio, Charles E. Merrill Publishing Company; trad. it. (1973) Libertà nell’apprendimento, Firenze, Giunti Barbera. Rogers, C. (1980), A Way of Being, Colombus, Ohio, Charles E. Merrill Publishing Company; trad. it. (1983) Un modo di essere, Firenze, Martinelli. Zucconi A, Howell P. (2003), La Promozione della Salute, edizioni la meridiana, Molfetta (BA).

    Sitografia

    http://www.gordontraining.com/parenting/parents-show-acceptance/ (visitato il 3 novembre 2018 ore 18:30) http://www.gordontraining.com/who-we-are/gti-historical-timeline/ (visitato il 4 novembre 2018 ore 14:00) www.francescacoddetta.it (visitato il 4 novembre 2018 ore 15:00) www.iacp.it
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