Intelligenza emotiva e sviluppo individuale nel mondo del lavoro.

Intelligenza emotiva e sviluppo individuale nel mondo del lavoro.

a cura di Francesca Coddetta

 Intelligenza emotiva e sviluppo individuale nel mondo del lavoro.

Lintelligenza emotiva è un fattore critico per la resilienza e lo sviluppo delle competenze relazionali. Essa fa la differenza in termini realizzazione dei propri obiettivi, in quanto ogni giorno siamo chiamati come singoli e come membri di un gruppo (lavoro, famiglia, amore/amicizia), a prendere decisioni, raggiungere obiettivi, superare ostacoli, risolvere problemi, gestire imprevisti. In sostanza l’intelligenza emotiva è fondamentale per prendere decisioni che funzionano gestendo situazioni complesse sotto pressione.

Si tratta di una dimensione dell’intelligenza umana che comprende l’abilità:

  • di riconoscere le proprie emozioni;
  • di consapevolizzarle e dare loro un nome;
  • di comprendere le ragioni (bisogni) per cui ci si sente in un certo modo;
  • di riuscire ad utilizzare le emozioni a proprio vantaggio abbinando ad esse comportamenti funzionali e socialmente accettati;
  • di relazionarsi con le emozioni altrui e con i comportamenti che da esse scaturiscono.

Quando impariamo a sviluppare l’intelligenza emotiva

A prescindere dall’età, le competenze emotive possono essere apprese, educate e potenziate per la crescita e la realizzazione professionale.

Comprendere le proprie emozioni e quelle degli altri è un processo che ha inizio con la nascita, ma richiede allenamento continuo. I risultati delle ricerche in ambito delle neuroscienze, hanno dimostrato ormai da tempo che in qualsiasi momento del corso della propria esistenza o storia professionale, è sempre possibile per un individuo dare forza e vigore alla propria intelligenza emozionale. Le emozioni sono fondamentali per l’autoconsapevolezza, l’autoefficacia, la capacità di cooperare e stabilire legami sociali positivi e costruttivi. In sintesi, sono fondamentali per il benessere bio-psico-sociale degli esseri umani.

Cos’è un’emozione?

La maggior parte delle teorie odierne definiscono lemozione come una risposta del nostro organismo ad uno stimolo che provoca modificazioni a livello neurovegetativo, psicologico e comportamentale. Lo stimolo può essere reale o immaginario; provenire dall’ambiente esterno all’individuo, ossia, dal mondo sia fisico che relazionale che lo circonda; o interno, quando proviene dallo stesso sistema biologico o è attivato dai processi di pensiero (ricordi, giudizi, aspettative).

Le emozioni, in pratica, sono dei segnali, degli allert che avvisano la persona dei cambiamenti che avvengono nell’ambiente di vita. In risposta ad un evento/fenomeno possono accendersi contemporaneamente emozioni diverse. La loro intensità varia nel tempo, così come la loro durata che, generalmente, è comunque breve.

La risposta emozionale, quindi, non è uno stato, ma un processo in continua evoluzione.

Quante emozioni prova un essere umano?

Un essere umano vivo si emoziona continuamente, sia durante la veglia che durante il sonno. La maggior parte delle emozioni che viviamo, però, resta a livello sub-cosciente. I circuiti neuronali deputati al riconoscimento consapevole delle emozioni, si attivano, infatti, solo quando l’intensità delle risposte fisiologiche raggiunge una certa soglia. Quando l’emozione viene percepita a livello consapevole si attiva larousal, una condizione temporanea che coinvolge il sistema nervoso centrale sia a livello periferico che vegetativo. A seconda dell’emozione che si prova momento per momento, l’arousal provoca variazioni della frequenza cardiaca e respiratoria, della distribuzione del sangue nell’organismo, della temperatura corporea, della sudorazione e salivazione, della capacità attentiva, della capacità percettiva dei recettori sensoriali.

Questo meccanismo ha una funzione adattiva perché consente all’essere umano di accorgersi dei cambiamenti nel suo ambiente di vita, valutarne la bontà o la pericolosità e reagire in modo resiliente.

Sebbene generalmente le emozioni vengono categorizzate in positive e negative in funzione dell’effetto piacevole/spiacevole sul soggetto che le percepisce, tutte loro, a prescindere dalla valenza edonica, sono fondamentali per la sopravvivenza, il benessere e il successo dell’essere umano, in termini di raggiungimento degli obiettivi e soddisfazione dei bisogni.

Nella dimensione professionale, possiamo dire che la funzione delle emozioni sia, in generale, quella di aumentare la performance della persona che lavora.

Alcune emozioni sono innate e comuni a tutti gli esseri umani indipendentemente dall’età anagrafica, dal sesso biologico, dalla cultura di appartenenza. Altre si sviluppano con la crescita dell’individuo, vengono apprese e sono collegate all’educazione e al contesto socio-culturale.

Le emozioni primarie

Le prime vengono dette emozioni di base, universali o primarie. Quelle appartenenti all’altra categoria originano dalla combinazione delle primarie e vengono classificate come emozioni secondarie. In tanti hanno studiato gli stati affettivi cercando di definirli e categorizzarli. Non c’è accordo unanime tra gli scienziati, ma in linea generale sono considerate primarie: paura, gioia, rabbia, tristezza, sorpresa e disgusto.

Conosciamo le emozioni primarie

La sorpresa, pur essendo l’emozione di minor durata (una volta accesa persiste solo qualche istante) è fondamentale in quanto deputata ad attenzionare l’individuo su un cambiamento inaspettato. La sorpresa può aversi in risposta ad uno stimolo nuovo, del tutto sconosciuto alla persona; come, anche, a seguito di un evento noto, ma inaspettato o imprevisto. Essa lascia istantaneamente il posto ad altre emozioni primarie e secondarie in base a come la persona valuta il cambiamento. Si avranno gioia, curiosità, meraviglia, divertimento, felicità, e altre emozioni che provocano stati di benessere, in corrispondenza di stimoli valutati positivamente. La sorpresa lascerà spazio a paura, frustrazione, imbarazzo, inadeguatezza, rabbia e altre emozioni che provocano stati di distress, in corrispondenza di situazioni valutate come minacciose o problematiche.

Volendo fare un esempio, immaginiamo Rosa una donna di 57 anni che lavora nella stessa azienda da 30, con una seniority di 15 anni nello stesso ruolo. Ecco, ipotizziamo che l’HR comunichi a Rosa che cambierà team per portare avanti un progetto aziendale nuovo insieme a colleghi giovani e inesperti. La prima reazione di Rosa sarà la sorpresa. Quali emozioni sperimenterà subito dopo, dipende da come Rosa valuta la decisione aziendale, in base ai suoi bisogni, valori e aspettative. Potrebbe provare entusiasmo, curiosità e interesse giudicando il cambiamento come opportunità di crescita e di carriera. Percepire frustrazione, senso di inadeguatezza, rabbia, sentendo negato il suo bisogno di sicurezza e di appartenenza al team in cui lavora da anni. Anche i colleghi giovani potrebbero restare sorpresi dalla notizia che entrerà a far parte del loro team una collega anziana. Cosa proveranno successivamente dipenderà da come il team valuta la decisione aziendale, in base ai suoi bisogni, valori e aspettative. Potrebbero provare diffidenza e preoccupazione considerando l’ingresso di Rosa come un freno alla dinamicità e flessibilità delle strategie di gruppo; oppure rassicurazione e fiducia per la possibilità di attingere all’esperienza di una collega che nella sua carriera ha avviato molti progetti di successo.

Quale’è la funzione delle emozioni?

Primarie o secondarie, tutte le emozioni hanno la funzione di ottimizzare le prestazioni dellindividuo per renderlo abile a fronteggiare con successo il disequilibrio e il naturale stato di disagio che si attiva in concomitanza di un cambiamento nellambiente di vita. É evidente l’importanza di questo meccanismo nell’attuale momento storico caratterizzato dal cambiamento continuo, repentino, inaspettato a tutti i livelli: sociale, tecnologico, lavorativo. Perché la funzione adattiva abbia successo, è necessario che la persona, oltre a consapevolizzare le emozioni grazie all’aurosal, sia capace di riconoscerle, distinguendo le une dalle altre. Ogni stato affettivo, infatti ha un’azione specifica per il buon funzionamento dell’individuo.

Prendendo in esame solo le emozioni primarie, vediamo nel dettaglio che:

  • La paura permette di uscire dalla zona di comfort consapevoli delle difficoltà e dei pericoli che si incontreranno, rendendo la persona libera di prepararsi ad affrontarli. La paura abbassa la probabilità di errore o fallimento.
  • La tristezza ci prepara al cambiamento in quanto ci aiuta a riflettere sulle cose che stiamo lasciando andare o sui nostri insuccessi. Pensando e ripensando a queste cose, mettiamo a fuoco ciò che ha funzionato e che vogliamo portare con noi nel percorso di rinnovamento e ciò che invece consideriamo disfunzionale e preferiamo modificare.
  • Il disgusto ci aiuta ad orientarci nel nuovo, portandoci a mettere distanza dalle cose, le persone o le situazioni minacciose, pericolose o contrarie ai nostri valori.
  • La rabbia alimenta la perseveranza e la determinazione, fornendoci energia e forza per affrontare la fatica del cambiamento e per mettere confini che aiutano gli altri a rispettare i nostri spazi e la nostra dignità.
  • La gioia accende la luce sulle cose che funzionano e sulle relazioni che ci nutrono. Grazie all’energia che questa emozione libera possiamo comprendere noi, e far capire agli altri, cosa soddisfa i nostri bisogni, così da rafforzare i comportamenti funzionali.

Essere consapevole dell’emozione che si sta provando, permette alla persona di individuare il bisogno che la origina e attivare una strategia comportamentale efficace per il raggiungimento dell’obiettivo congruente.

Tornando a Rosa, immaginiamo che lei si senta gratificata dalla proposta di cambiamento: le piace il suo lavoro e si sente motivata ad affrontare una nuova sfida professionale. Accanto a questo, Rosa potrebbe sentirsi intimorita all’idea di doversi integrare con colleghi più giovani, provare insicurezza e sentirsi inadeguata per il fatto di dover apprendere nuovi processi e strumenti. Riconoscendo queste emozioni, la nostra amica potrà contattare i bisogni che sono messi in discussione e alzano i suoi livelli di stress: avere relazioni di qualità con i colleghi e avere buone prestazioni sul lavoro. Consapevole di ciò, sarà in grado di usare il suo potere personale per abbinare alle emozioni che prova, comportamenti che soddisfino quei bisogni.

Cosa succede quando attiviamo un bias cognitivo

Spesso accade, però, che un bias cognitivo porti le persone a considerare le emozioni come ostacolo alla capacità di ragionare e fare scelte vincenti.  La credenza comune vede l’emozione come sintomo di fragilità o ostacolo alla performance.

Se un cambiamento mi fa paura, significa che non sono in grado o che non sia conveniente per me cambiare.”

Se un cambiamento mi rende triste, significa che non va bene per me lasciare la mia zona di comfort o interrompere una relazione, anche se contatto il  vissuto di malessere.”

Se lidea di cambiare mi fa arrabbiare, vuol dire che la sfida è pericolosa per me e per gli altri.”

Può succedere perciò che una persona, percependo le proprie emozioni, attivi delle resistenze.

Rosa, considerando il timore, l’insicurezza e il senso di inadeguatezza come indicatori del fatto che lei non sia adatta a questa nuova mansione potrebbe, perciò, attivare comportamenti disfunzionali, mettendo a rischio la sua carriera.

Come superare la resistenza al cambiamento?

La resistenza al cambiamento è quella forza che ci spinge a rimanere nella nostra comfort zone anche quando è diventata una zona di dis-comfort. Nella nostra vita quotidiana, tendiamo a mantenere lo status quo e ad aggrapparci a ciò che conosciamo per mantenere l’equilibrio che abbiamo raggiunto con grande fatica. La resistenza al cambiamento è, quindi, fisiologica.

Evitare il cambiamento è però impossibile, oggi più che mai, soprattutto nella realtà lavorativa. Resistendo al cambiamento, mettiamo a rischio il nostro benessere e ben-stare in azienda. Questo impatta, con effetto domino, direttamente sui nostri bisogni di riconoscimento professionale, appartenenza al gruppo, sicurezza e sopravvivenza.

Riusciamo a superare la resistenza al cambiamento grazie alle competenze di autoconsapevolezza e intelligenza emozionale. Quando siamo consapevoli dei nostri bisogni e della congruenza dell’obiettivo che abbiamo individuato, la motivazione al cambiamento cresce. Quando conosciamo le nostre emozioni, sappiamo usarle a nostro vantaggio per gestire positivamente il cambiamento. Sviluppare sé stessi significa essere aperti alla possibilità di rinnovamento; significa essere in grado di cambiare ruolo all’interno di un gruppo (da semplice risorsa a leader di un team) o svolgere lo stesso ruolo in modo differente (un genitore nei confronti di un figlio adolescente).

Impariamo a conoscere i bias cognitivi per affrontare positivamente il cambiamento

Per affrontare positivamente il cambiamento, è importante neutralizzare l’effetto di alcuni bias cognitivi legati alle emozioni che bloccano il processo di crescita professionale o lo rendono più difficile e demotivante. Alcune emozioni, più di altre entrano in gioco nel facilitare o ostacolare le persone rispetto al cambiamento. Dipende dal modo in cui le consideriamo. Sto parlando del senso di inadeguatezza, dell’ansia da prestazione e di tutte le emozioni legate all’esperienza dellerrore o del fallimento.

L’ansia da prestazione porta la persona a vivere uno stato di tensione, agitazione e preoccupazione rispetto ai compiti che vuole o deve portare a termine. Essa racchiude la paura di non essere allaltezza delle aspettative degli altri circa la propria performance. La funzione adattiva di questa emozione consiste nellattivare lattenzione, la capacità di concentrazione, e più in generale tutte le risorse interne all’individuo per aiutarlo a portare a termine il compito o raggiungere l’obiettivo al meglio delle sue possibilità. Quando la persona accoglie positivamente la sua ansia da prestazione, può avvalersene per ottimizzare performance e raggiungere i suoi obiettivi. Un giusto livello di ansia da prestazione garantisce il successo, sia rispetto ad un compito specifico da portare a termine, che rispetto all’obiettivo più generale di mantenere uno stato di equilibrio e armonia interiore.

Quando, invece, questa emozione viene vissuta come minacciosa e si tenta di reprimerla o nasconderla, genera una tensione che ostacola l’efficacia e l’efficienza.

L’attuale contesto culturale, sviluppato intorno ad un modello che dà valore alla competizione e all’immagine esteriore, alimenta un’altra emozione legata alla prestazione: il senso di inadeguatezza.

La sua funzione adattiva consiste nel rendere la persona consapevole delle proprie aree di miglioramento, permettendole di attivarsi per acquisire e potenziare conoscenze e competenze utili al raggiungimento costante degli obiettivi di ruolo (genitore, professionista, amante). È questa emozione che ci rende consapevoli del livello delle nostre competenze e capaci di perfezionarle e potenziarle. Il senso di inadeguatezza si traduce nella sensazione interna di non essere all’altezza di un compito. È la persona che giudica sé stessa come fuori luogo rispetto agli altri di riferimento o ad una mansione. Questa emozione è quindi, legata alla self-efficacy; una competenza trasversale che consiste nella capacità dell’individuo di credere di poter superare le difficoltà presenti sulla strada che sta percorrendo per raggiungere i propri obiettivi.

L’ errore facilita il nostro cambiamento

Per facilitare il nostro cambiamento bisogna riconoscere a noi stessi il diritto di sbagliare e stimolare una visione positiva delle emozioni legate al fallimento. Accettare l’esperienza dell’errore come parte del processo di apprendimento e miglioramento continuo nella dimensione privata o professionale, rende le persone disponibili all’idea di sostituire abitudini e metodi tradizionali con nuovi processi e nuovi strumenti di lavoro.

Quando ci accorgiamo di commettere un errore o di aver fallito un compito o un obiettivo, proviamo, oltre al senso di inadeguatezza, emozioni come frustrazione, imbarazzo, vergogna, fastidio, rabbia, tristezza, senso di colpa, insicurezza e altri stati affettivi della gamma emozionale che provoca sensazioni spiacevoli e distress.

È casuale? Assolutamente no!

Siamo biologicamente strutturati per evitare situazioni di disequilibrio che provocano distress e sensazioni spiacevoli. Quindi, una simile gamma emozionale abbinata all’errore e al fallimento facilita la persona, e gli esseri umani come specie, a non ripetere lo stesso sbaglio e non ripercorrere strategie inefficaci. Possiamo imparare dai nostri stessi errori, o, per apprendimento vicario, dagli errori delle persone che abitano il nostro ambiente di vita e di lavoro.

Per trasformare lesperienza dellerrore in opportunità di crescita e sviluppo professionale, dobbiamo però essere disposti ad assumerci la nostra parte di responsabilità e utilizzare l’empowerment per guardare all’errore con la curiosità necessaria. Il primo passo è, quindi, accogliere come alleate le emozioni “negative” che genera l’esperienza fallimentare, traendo da esse l’energia per cercare le cause e formulare strategie funzionali al successo.

Facciamo un esempi concreto.

Nel corso dell’invecchiamento, sul vissuto emozionale del lavoratore over 50, hanno effetto una serie di fattori come i cambiamenti biologici, psicologici, sociali e le esperienze legate alla storia professionale. Particolare importanza hanno i vissuti relativi alla propria identità di lavoratore. Emozioni intense come il senso di inadeguatezza all’uso di nuove tecnologie, la delusione legata all’esclusione dalle politiche aziendali per lo sviluppo della carriera, o la paura di perdere il lavoro, possono impattare negativamente sulla motivazione al cambiamento favorendo negli older workers una passiva accettazione degli stereotipi legati all’aging. Tuttavia il lavoratore over 50 può riuscire a superare o attenuare l’entità di queste esperienze negative, nutrendo le proprie employabilities. Molti studi dimostrano, infatti, l’utilità psicologica di porsi degli obiettivi professionali precisi e raggiungibili.

 

Nuove prospettive del Kids’Workshop

Nuove prospettive del Kids’Workshop

Una sperimentazione nel nido con bambini tra i 2 e i 3 anni

di Francesca Coddetta, Sabrina Maio

 Introduzione al lavoro del Kid’s Workshop

Il presente lavoro vuole descrivere un’esperienza sperimentale di applicazione del laboratorio Kids’ Workshop di Barbara Williams ad un gruppo di bambini di 2-3 anni di un asilo nido di Roma. Quello ideato dalla Williams negli anni ’70 è un laboratorio esperienziale che, ispirato al paradigma rogersiano, lavora sul rafforzamento delle qualità centrate sulla persona – accettazione, empatia e congruenza – e sulla valorizzazione della creatività e della comunicazione diretta.

L’efficacia del Kids’ Workshop ai fini della promozione di un sano sviluppo della personalità è stata nel tempo ampiamente comprovata con gruppi di bambini di età compresa tra i 4 e i 12 anni, come verrà descritto successivamente nel paragrafo dedicato. L’ipotesi che ci ha ispirato a sperimentare il KW con bambini più piccoli, è che le caratteristiche evolutive della fascia di età compresa tra i due e i tre anni sembrano particolarmente adatte all’incontro con i concetti e principi alla base del laboratorio. In questo periodo evolutivo, infatti, si osserva la fase iniziale di importanti conquiste come: l’uso della parola ai fini della comunicazione con l’altro; il riconoscimento e la differenziazione delle emozioni di base – paura, gioia, rabbia, stupore, tristezza – sia su di sé che sull’altro; la sperimentazione delle relazioni tra pari; la rappresentazione mentale della realtà – simbolizzazione e teoria della mente. Proporre il Kids’ Workshop in questa fase evolutiva può permettere, dunque, il rafforzamento di tali apprendimenti in un modo che sia immediato e congruente con la tendenza attualizzante dell’individuo in funzione del proprio benessere. Mentre l’applicazione del Kids’ Workshop con bambini più grandi necessita di una prima fase di evidenziazione e consapevolizzazione degli apprendimenti disfunzionali prima di passare alla fase di vero e proprio rafforzamento e valorizzazione delle qualità centrate sulla persona.

Vogliamo iniziare la presente trattazione fornendo un quadro teorico di riferimento relativo al processo di sviluppo durante la fase di crescita che va dai 2 ai 3 anni con la duplice prospettiva di chiarire l’utilità e i vantaggi che può avere per il bambino l’esperienza legata al kids’Workshop e di motivare gli adattamenti che sono stati apportati agli esercizi originali progettati dalla Williams.

Caratteristiche della fase evolutiva: fascia 2-3 anni

Secondo la teoria della personalità di C. Rogers (1951, 1961, 1965), i primi anni di vita sono fondamentali per la strutturazione di una personalità sana, in quanto l’individuo, essendo all’inizio del suo percorso evolutivo, è in uno stato di maggiore dipendenza dalle influenze esterne. In altre parole, l’essere umano, che naturalmente tenderebbe ad uno sviluppo positivo verso l’autorealizzazione, nel periodo della prima infanzia, essendo particolarmente vulnerabile, può più facilmente venire deviato nel suo percorso di crescita, da un ambiente che lo allontani dalla sua “Tendenza Attualizzante”, ovvero un sistema motivazionale intrinseco alla natura umana che ne determina lo sviluppo e ne dirige il comportamento.

La presenza di un ambiente facilitante è, allora, in special modo importante nella fascia 2-3 anni.

Ma, quali caratteristiche deve avere l’ambiente per essere definito come facilitante?

Per poter identificare le caratteristiche che l’ambiente biologico, culturale e sociale deve avere per essere facilitante si deve necessariamente partire dalle principali modificazioni a cui il cucciolo d’uomo va incontro durante questa fase di vita. Lo sviluppo deve essere osservato secondo tutti i diversi aspetti della maturazione: neuromotorio, sensoriale, cognitivo, affettivo e relazionale. In genere esso segue modalità fisse nella comparsa dei vari schemi di comportamento; modalità che sono descritte nelle scale di sviluppo (Gesel 1926, Brunet-Lezine 1951, Griffiths 1954). Nonostante siano descrivibili tappe di sviluppo con tempi e ritmi abbastanza costanti che permettono di parlare di percorso di crescita fisiologico del bambino, occorre, però, ricordare che ogni bambino ha ritmi di crescita differenti, mai del tutto simili a quelli degli altri coetanei. Infatti, l’evoluzione maturativa avviene attraverso lo sviluppo di diverse aree della personalità ciascuna con la propria struttura ed un proprio ritmo evolutivo che si integrano ed interagiscono tra loro rendendo ogni individuo unico. Le aree in questione sono:

  • l’area corporea da cui dipende la motricità, la tendenza alla conservazione e lo sviluppo di strutture specifiche come la capacità di orientamento spazio-temporale, la capacità di equilibrio e la capacità di coordinamento oculo-motoria;
  • l’area cognitiva a cui si deve la capacità di elaborare gli input e la comprensione degli stimoli, la capacità di simbolizzazione, la capacità mnemonica nonché la capacità di pianificare il proprio comportamento in funzione di un progetto;
  • l’area affettiva che controlla l’emotività, la motivazione alla risposta agli stimoli, il senso di autostima;
  • l’area sociale da cui dipende la capacità di rispetto e di collaborazione di un individuo verso la società nella quale è inserito.

La personalità di un essere umano può dirsi sana ed integrata, quando le diverse aree sopra descritte seguono un processo di maturazione armonico.

 Lo sviluppo motorio

L’area di sviluppo motorio verrà trattata in modo molto sintetico essendo la meno determinante rispetto ai principali obiettivi del kids’ Workshop.

La motricità (Camaioni, 1999) consiste nella capacità di compiere tutti i movimenti possibili con il proprio corpo. Lo sviluppo dell’area motoria è, quindi, alla base dei processi di interazione con l’ambiente e con gli altri e consente al bambino di iniziare a variare i “punti di vista” e le “prospettive”. La capacità motoria permette, inoltre, l’accrescimento psicofisico e l’acquisizione dell’autonomia individuale. Nel corso dell’età pre-verbale il bambino è “un essere principalmente motorio”, la motricità pertanto condizionerà lo sviluppo ed il raggiungimento delle tappe maturative fondamentali. Possiamo affermare che il movimento accompagna lo sviluppo delle conoscenze del bambino, e quando queste passano sotto il controllo dell’intelligenza verbale, rimane un indicatore importante dei modi in cui si esteriorizza l’attività psichica. Lo sviluppo dello schema motorio dipende dal coinvolgimento di tre fattori: il sistema nervoso e l’apparato muscolo-scheletrico che si sviluppano attraverso una serie di fasi determinate sia dalla genetica che da stimoli esterni e, terzo fattore, l’ambiente che può stimolare e motivare il bambino in modo diverso e perciò provocare risposte differenti. Dunque un ambiente di crescita che sia strutturato in modo tale da permettere al bambino di muoversi in modo libero e sicuro rappresenta un fondamentale strumento di formazione di una personalità autonoma. In particolare lo sviluppo motorio del bambino è strettamente legato allo sviluppo dell’intelligenza intesa come forma di adattamento all’ambiente che permette di moltiplicare gli scambi positivi tra il mondo circostante ed il proprio corpo a vantaggio di quest’ultimo.

Aspetti dell’area cognitiva

Gli aspetti dell’area cognitiva interessanti per il Kids’ Workshop sono quelli relativi alla capacità di simbolizzazione e alla costruzione mentale della realtà.

Lo sviluppo dell’area cognitiva comincia con la capacità di percepire l’ambiente. Esiste una vastissima letteratura sull’argomento e molti sono gli studiosi che hanno formulato teorie sullo sviluppo cognitivo. Per ragioni di sintesi ne citeremo soltanto alcune.

Secondo Piaget (1896-1980), l’intelligenza è un prolungamento del nostro adattamento biologico all’ambiente in quanto l’uomo è biologicamente e geneticamente dotato di una predisposizione che gli permette di superare i limiti imposti dalla natura e di agire sull’ambiente, modificandolo in base alle sue esigenze (Camaioni, 1999). Il bambino, attraverso l’intelligenza costruisce, infatti, delle nuove strutture mentali che gli servono per comprendere e spiegare l’ambiente. Ciò avviene mediante un progresso evolutivo che accompagna l’intero periodo di crescita del soggetto, caratterizzato dall’avvicendarsi dei processi di assimilazione[1], accomodamento[2] e adattamento[3]. Infatti secondo Piaget, lo sviluppo cognitivo è possibile solo in funzione di questi processi. Esso ha sia la caratteristica di essere continuo, in quanto governato da funzioni invarianti di adattamento ed accomodamento, sia di essere discontinuo in quanto con il crescere dell’età si verificano modificazioni strutturali chiamate dall’Autore “stadi di sviluppo”. Ogni stadio prevede una forma particolare di organizzazione psicologica con proprie conoscenze ed interpretazioni della realtà. Piaget distingue quattro stadi di sviluppo. Tra questi lo stadio preoperazionale che va dai 2 ai 6 anni è quello di interesse della nostra trattazione. Durante questo periodo di sviluppo il bambino acquisisce la capacità rappresentativa che gli consente di utilizzare oggetti, immagini, azioni o parole come simboli di qualcos’altro. Questa capacità, alla base della costruzione di molti degli esercizi del laboratorio della Williams, si evidenzia per alcune attività che il bambino mette in essere: l’imitazione differita, cioè imitare un comportamento osservato in precedenza anche in assenza del modello (ad esempio negli esercizi del “fiore immaginario”, “il mio posto preferito”, “trasformarsi in animali”); il gioco simbolico, ossia utilizzare un oggetto al posto di un altro (ad esempio negli esercizi “conoscersi attraverso i puppets”,“le maschere”); il linguaggio, ossia utilizzare parole o semplici frasi per rappresentare la realtà (ad esempio negli esercizi “i messaggi diretti”,“esprimi tre desideri”).

La teoria di Piaget ha trascurato il ruolo che l’area sociale ha nello sviluppo dell’intelligenza. Vygotsky (1896-1934) fece, di contro, un tentativo di spiegare lo sviluppo della cognizione come strettamente interconnesso con la socializzazione. La teoria, formulata da Vygotskij (1934) si fonda sul concetto di zona di sviluppo prossimale. La zona cognitiva entro la quale un bambino riesce a svolgere, con il sostegno di un adulto o in collaborazione con un pari più capace, attraverso la mediazione degli scambi comunicativi, compiti che non sarebbe in grado di svolgere da solo. Il concetto di zona di sviluppo prossimale sottolinea anche l’importanza del principio di prontezza, che aumenta la necessità per un soggetto di essere preparato ad acquisire un certo contenuto. Proporre il Kids’ Workshop nella fase evolutiva tra i due e i tre anni, può, allora, in linea con il concetto di zona di sviluppo prossimale, permettere il rafforzamento di apprendimenti come l’uso del linguaggio, l’alfabetizzazione emotiva, la capacità di relazione interpersonale.

Bruner (1915-1995), ispirandosi alla teoria di Vygotskij, propose una teoria nell’ambito dello sviluppo cognitivo che identifica gli elementi di interazione sociale come una parte integrante dell’elaborazione delle informazioni (Bruner, 1956). Infatti, secondo questo Autore, l’apprendimento per l’essere umano è essenzialmente un’attività che coinvolge la co-costruzione della conoscenza e dipende dalla possibilità di trovare soluzioni a problematiche utilizzando strategie di ricerca di elementi di regolarità nei fenomeni ambientali. Il laboratorio proposto dalla Williams, essendo un laboratorio fondato sulla collaborazione e condivisione in gruppo di più individui tra loro, facilita il rafforzamento delle qualità centrate sulla persona proprio attraverso l’interazione sociale.

La Teoria della Mente

A partire dalla fine degli anni 80 si è andato sviluppando nell’ambito della psicologia dello sviluppo, un paradigma conosciuto come “Teoria della Mente”. Tale paradigma intende la “teoria della mente” come una competenza che gli esseri umani sviluppano di capire gli altri in termini di stati mentali, cioè la capacità di attribuire stati interni, quali desideri, credenze, a sé e agli altri e di prevedere il comportamento proprio e altrui sulla base di tali stati. Negli ultimi anni si sono sviluppati molti studi per comprendere i possibili processi che portano allo sviluppo di questa abilità nei bambini. Pionieri sono stati i lavori sperimentali di Premach e Woodruff del 1978 e il “compito della falsa credenza[4]” ideato da Wimmer e Perner nel 1983. Secondo questi ultimi due Autori, comprendere che l’azione di un’altra persona consegue dalla falsa credenza della persona in questione, indica che il bambino ha raggiunto la separazione concettuale tra mente e realtà e che concepisce gli stati mentali come cause del comportamento. Il mondo accademico è, in linea generale, concorde nel ritenere che ciò non possa accadere prima dei 4 anni di età del bambino. Tuttavia ci sono evidenze di una conoscenza della mente a partire dai 2-3 anni di età in quanto i bambini sono in grado di comprendere e sviluppare il gioco simbolico e di prevedere il comportamento altrui sulla base dei desideri. Gli stati fisiologici e le emozioni fondamentali ad essi collegate sono per i bambini così piccoli generatori di desideri che si traducono in azioni comportamentali funzionali al loro soddisfacimento. Il successo o meno di tali azioni produce reazioni emotive di piacere o dispiacere che contribuiscono alla stabilizzazione o meno del comportamento stesso. Essi, però, non sono ancora in grado di riconoscere le false credenze in quanto non si rendono conto della differenza tra ciò che viene pensato e ciò che accade realmente.

Simon Baron-Cohen (1958), ha individuato come la competenza della rappresentazione interna degli stati mentali sia fondamentale per la capacità di riconoscere ed interpretare le espressioni mimiche, per la messa in atto di comportamenti imitativi, per la possibilità di attuare il gioco simbolico e per sviluppare la capacità di partecipare ad attività che richiedono la condivisione dell’attenzione. Si può dedurre, allora, che tale competenza sia legata ad un “sistema rappresentazionale” che consente al bambino di rendersi conto degli interessi e dei modelli che l’Altro utilizza nella sua mente per comprendere la realtà (S. Baron-Cohen 1995; Lesile 1991; Frith 1999).

Tali osservazioni portano a considerare come la competenza della mentalizzazione sia fondamentale per lo sviluppo dell’area affettivo-relazionale della personalità. Infatti la capacità di “pensare” gli stati mentali propri e degli altri (sentimenti, desideri, intenzioni e gli stessi pensieri) sta alla base della possibilità dell’uomo di mettersi in relazione con i suoi simili, di essere cioè un “animale sociale”. In effetti la competenza cognitiva procede, lungo lo sviluppo, insieme alla competenza affettiva e alla competenza sociale, in modo indissolubile. Il logico passo successivo del nostro viaggio conoscitivo è dunque quello di esplorare le modalità di sviluppo nei bambini della sfera emotiva e della sfera sociale della personalità…..

La competenza emotiva

La competenza emotiva è una capacità complessa del soggetto adulto che consiste nella facoltà di costruire relazioni interpersonali positive che favoriscono comportamenti socializzanti. Nei vari approcci metodologici allo studio della competenza emotiva sono state individuate tre chiavi di lettura: la comprensione della natura delle emozioni, la loro causa e la regolazione delle stesse.

Le teorie più recenti hanno messo in luce che gli affetti assumono il loro significato nelle relazioni e negli scambi comunicativi in cui si definisce l’esperienza emotiva. Da ciò emerge con chiarezza che le relazioni interpersonali giocano un ruolo fondamentale nella socializzazione emotiva in quanto sono il contesto in cui il bambino impara il significato delle emozioni e la loro comunicazione, nonché le modalità socialmente accettabili della loro espressione. L’esperienza emotiva, quindi, affonda le sue radici nella cultura cui fa riferimento: la medesima emozione può assumere significati diversi a seconda dei contesti. Il modo in cui l’adulto che si prende cura del bambino gestisce le emozioni nel rapporto col bambino stesso, può influire profondamente nello sviluppo della competenza emotiva e su come il bambino riuscirà in seguito a regolare le proprie emozioni in modo socialmente adeguato ed efficace. Il Kids’ Workshop in linea con quanto detto, enfatizza l’importanza dell’accettazione incondizionata da parte del facilitatore di tutte le emozioni espresse dai bambini come anche della loro libertà di non condividerle in gruppo. L’accettazione comunica all’individuo bambino il rispetto ed il riconoscimento di lui come persona e questo faciliterà lo stabilirsi della fiducia nella relazione e l’efficacia degli apprendimenti proposti.

Le emozioni complesse cominciano ad apparire intorno ad 1 anno, ma il bambino sarà in grado di padroneggiarle soltanto intorno ai tre anni. L’importanza dei primi legami affettivi del bambino, in particolare con la madre, per lo sviluppo della competenza affettivo-relazionale è stato un concetto alla base della teoria di Bowlby (1907-1990) sull’attaccamento. Per questo Autore i primi legami affettivi del bambino con le figure adulte di riferimento sono fondamentali nell’acquisizione del comportamento sociale e dell’adattamento all’ambiente. Secondo Bowlby (1979, 1988), il bambino piccolo possiede, in virtù della sua dotazione genetica, una predisposizione biologica che lo porta a sviluppare un attaccamento per chi si prende cura di lui; l’attaccamento, infatti, assicura al bambino la sopravvivenza. L’Autore precisa la distinzione fra attaccamento, termine generale che si riferisce al legame intenso che può occorrere fra due o più individui, e comportamento di attaccamento, che invece definisce l’insieme di comportamenti che il bambino mette in atto dalla nascita, con modalità diverse a seconda delle fasi del suo sviluppo, per far fronte a situazioni stressanti (Bowlby 1979).

Questa teoria è stata successivamente ampliata da Mary Ainsworth (1913-1999), una allieva di Bowlby, che elaborò la nozione di “base sicura”. L’Autrice (2006), a tal proposito, ha individuato tre tipi di attaccamento che, in base alle dinamiche di relazione con la madre, il bambino può sviluppare nel primo anno di vita: l’attaccamento sicuro, l’attaccamento evitante e quello ambivalente[5].

Recentemente Fonagy e Mary Target (1997) hanno elaborato il concetto di “funzione riflessiva”. Esso si riferisce alla “ funzione mentale che permette agli individui di elaborare l’esperienza del proprio e altrui comportamento traducendola nella capacità di agire un comportamento o rispondere ad un comportamento altrui tenendo conto dello stato mentale dell’altro.

Il rispecchiamento affettivo

Fonagy (2001) ritiene che lo sviluppo della funzione riflessiva sia un processo intersoggettivo tra il bambino e chi si prende cura di lui. L’adulto, infatti, spontaneamente risponde ad un’espressione emotiva del bambino con un’emozione corrispondente: il piccolo ride, ridiamo anche noi. È questo il rispecchiamento affettivo, un comportamento di reazione all’agito altrui che implica la capacità di comprendere cosa l’altro sta provando (teoria della mente) e la capacità di comunicare tale comprensione. Il bimbo, in questo modo, osserverà fuori di sé l’emozione che sta provando internamente e potrà cosi costruirsi uno specifico schema mentale di riferimento (interiorizzazione). In altre parole, se il bambino sta vivendo uno stato emozionale interno, di agio come la gioia o di disagio come la paura, è importante che l’adulto di riferimento rispecchi quella stessa emozione che sta provando il piccolo. Il rispecchiamento, per essere efficace, deve essere, però, “contrassegnato”, cioè il caregiver deve rimandare al bambino un emozione che moduli l’intensità dell’affetto da lui esperito. Ad esempio se il piccolo esprime paura, l’adulto abbozza un sorriso contemporaneamente al rispecchiamento dell’espressione di paura, rendendo il sentimento meno angoscioso. Grazie al rispecchiamento, il bambino crea e organizza nella sua mente delle rappresentazioni delle emozioni riuscendo a connettere realtà esterna e stato mentale interno. Le esperienze relazionali con l’adulto che avvengono durante la prima infanzia sono allora fondamentali in quanto se il caregiver non ha un’adeguata competenza in quest’area (teoria dell’attaccamento, teoria della mente), il processo di rispecchiamento fallisce. L’adulto deve essere in grado sia di rispecchiare in modo contrassegnato (ossia di rimandare l’espressione emozionale al bambino e di rimandarla in modo da modularne l’intensità)  sia di pensare al bambino come individuo dotato di stati mentali interni; cioè di pensieri, desideri, emozioni e non trattarlo come semplice oggetto fisico (funzionamento riflessivo).

Il ruolo fondamentale della sfera emotivo-relazionale per la comprensione dello sviluppo della personalità umana, lo ritroviamo, oltre che nella teoria dell’attaccamento di J. Bowlby e nella teoria della funzione riflessiva di Main e Fonagy, anche nel paradigma rogersiano.

Teoria dello sviluppo della personalità

Carl Rogers (1902-1987) ha, infatti, sviluppato una Teoria dello sviluppo della personalità che si fonda su una concezione olistica dell’uomo (approccio Bio-Psico-Sociale) secondo la quale lo sviluppo dell’individuo dipende dal suo ambiente biologico, sociale e relazionale. Rogers (1942, 1951, 1961, 1965) spiega questo fenomeno affermando che -in generale ogni essere vivente e in particolare nel nostro caso- il cucciolo d’uomo, è munito di un sistema innato di motivazione, la tendenza attualizzante, che consiste in una forza motrice diretta allo sviluppo delle capacità utili al mantenimento, alla autoregolazione e autorealizzazione del bambino stesso. Oltre a ciò, la persona è dotata anche di un sistema innato di controllo, che è “il processo di valutazione organismico” che consiste nella capacità del soggetto di conoscere e comprendere sé stesso e di essere consapevole di quali siano i suoi reali bisogni. Entrambi questi sistemi comunicano internamente all’individuo mantenendo l’organismo in grado di individuare, ascoltare e accettare i propri bisogni e quindi di mettere in atto i comportamenti utili alla loro soddisfazione. Il fanciullo cioè, già dalla prima infanzia: percepisce la sua esperienza e la identifica con la realtà; tende a valutare positivamente le esperienze che percepisce come favorevoli al suo mantenimento e accrescimento e quindi le cerca e le ripete; mentre tende ad evitare le esperienze che vanno nella direzione contraria alla precedente. Rogers intende con “esperienza” tutto ciò che in un determinato momento avviene nell’organismo (pensieri, sensazioni, emozioni) e che è potenzialmente disponibile alla coscienza e quindi può essere appreso. Egli intende con “coscienza” la rappresentazione o simbolizzazione di una parte dell’esperienza vissuta di cui il soggetto è consapevole.

Secondo il paradigma rogersiano (1942, 1951, 1961, 1965) si nasce con un campo esperienziale indifferenziato. Il bambino, però, spinto dalla tendenza attualizzante e orientato dal processo di valutazione organismica, da subito agisce sull’ambiente e riceve percezioni del suo agire. Egli, cioè, attribuisce significati a tutto ciò che avviene dentro e fuori di lui. La percezione diventa un ponte di collegamento tra l’esperienza e la consapevolezza dell’esperienza stessa (simbolizzazione). Questo permette al soggetto di ripetere comportamenti che hanno procurato sensazioni soddisfacenti e di evitare quelli spiacevoli. L’agito, quindi, è determinato dalla percezione che il soggetto ha della realtà in un determinato momento e non dalla realtà in quanto tale.  Tutto ciò che non è percepito a livello conscio, viene classificato come esperienza non simbolizzata. Questo passaggio mette in evidenza quanto, per facilitare il percorso di crescita di un bambino, sia fondamentale comprendere il modo in cui egli percepisce la realtà che lo circonda. È, infatti, la percezione che crea la simbolizzazione della realtà. L’insieme delle esperienze (sé reale) e della loro simbolizzazione (sé ideale) andranno a formare la personalità del bambino, ossia la consapevolezza che il soggetto ha di esistere e di agire in quanto individuo. Una personalità ben funzionante ha una buona integrazione tra il sé ideale ed il sé reale. Questo è possibile solo se l’individuo vive in un ambiente che gli consenta la libertà di fare esperienza. È attraverso l’esperienza, infatti che il bambino riceve sensazioni, percezioni, attribuisce significati, crea ricordi; insomma, è attraverso il fare che il piccolo costruisce lo schema di riferimento, il sé reale, ossia la percezione che ha di sé stesso.

Insieme alla nozione dell’Sé si sviluppa nel bambino anche il “bisogno di considerazione positiva da parte degli altri significativi del suo ambiente sociale di riferimento. È questo un bisogno universale per il genere umano che è presente dalla prima infanzia e accompagna l’intero arco di vita della persona. Esso consiste nel desiderio del soggetto di essere accettato e amato dalle persone per lui significative e si traduce in comportamenti che possano favorire negli altri una risposta positiva. Questo vuol dire che il bambino potrà sviluppare appieno le sue capacità soltanto se l’ambiente sociale non pone condizioni all’accettazione (accettazione positiva incondizionata). Se, al contrario, l’accettazione positiva è condizionata dal fatto che il bambino metta in atto soltanto alcuni comportamenti socialmente considerati “buoni”, egli tenderà a dare importanza ai determinanti esterni piuttosto che al proprio principio di valutazione organismica nella scelta dell’agito. Il bambino, cioè, tenderà a rinforzare e ripetere i comportamenti accettati dagli altri e a negare o reprimere quelli considerati negativamente insieme al bisogno che li muove. Quest’ultimo, restando insoddisfatto, genera la percezione di un disagio che viene espresso dal bambino con comportamenti di varia natura come l’irrequietezza o l’aggressività oppure con atteggiamenti depressivi o di apatia oppure ancora con eccessivo zelo o collaborazionismo verso l’autorità. Avviene, cioè, una sorta di adattamento dell’individuo all’ambiente, in modo tale che l’individuo può, sì, sopravvivere, ma non può sperimentare ed esprimere in totale sé stesso.

Da quanto esposto, risulta chiaro che il naturale percorso evolutivo dell’individuo verso l’autorealizzazione dipenda dalla qualità facilitante dell’ambiente sociale in cui è inserito. Le relazioni con gli altri significativi sono per Rogers (1942, 1951, 1961, 1965) fondamentali per lo sviluppo di una personalità sana. L’ambiente sociale di crescita deve essere tale da consentire al piccolo la libertà dell’esperienza; da rispettare i suoi criteri di valutazione organismica; deve avere fiducia nelle capacità del bambino di trovare da solo, e in sé stesso, la forza di superare situazioni problematiche nella direzione positiva dello sviluppo ottimale; deve essere un ambiente che sappia accettare incondizionatamente le emozioni e i bisogni dell’bambino.

Un ambiente non facilitante indebolisce la forza di attuazione e può rallentare, deviare o bloccare il processo di crescita. In ogni caso la tendenza attualizzante non viene mai completamente annullata e appena il bambino, o la persona, si trova in un contesto accettante, la spinta all’autorealizzazione si riattiva e sostiene il bambino verso la ricerca di uno stato di benessere.

Partendo da tale presupposto, Virginia Axline (1911-1988), propone nel lavoro con i bambini la creazione di un setting terapeutico, la stanza del gioco, dove essi possano utilizzare il gioco come strumento per esprimere le proprie emozioni e agire liberamente i comportamenti che preferiscono. Emozioni e comportamenti che il loro ambiente sociale di riferimento tende a giudicare e a reprimere. La play room diventa un ambiente accettante ed empatico dove i bambini possono esprimere liberamente sé stessi ed esternare la loro individualità e la loro personalità; riconoscere e imparare a gestire le loro emozioni, accettare e rispettare i loro bisogni e risolvere i loro problemi. La Axline (1947) sottolinea come sia fondamentale che l’adulto che si relaziona con il bambino non sia direttivo, ma partendo dalla fiducia, lasci al bambino stesso la responsabilità del cambiamento.

Barbara Williams, riconoscendosi nei principi della Teoria dello Sviluppo della Personalità di Carl Rogers e condividendo le applicazioni che Virginia Axline ha attuato di quella teoria nel lavoro di facilitazione con i bambini, ha ideato e sviluppato il Kids’ Workshop, un laboratorio esperienziale che si pone come obiettivo principale la protezione e promozione delle innate capacità dei bambini.

Introduzione al Kids’ Workshop

Il Kids’Workshop è un laboratorio esperienziale per bambini ideato negli anni ’70 da Barbara S. Williams, psicologa statunitense, nata e cresciuta nello Stato del Colorado, a contatto dunque da sempre con la natura, con gli animali, con la cultura degli Indiani d’America e influenzata fortemente nella sua vita e nel suo lavoro da Carl R. Rogers,  Virginia Satir e Virginia Axline, alle cui filosofie si è ispirata. Il laboratorio nasce dunque dalla sintesi di diversi fattori, vicini nel considerare l’essere umano degno di rispetto e fiducia e capace di autoregolazione, se facilitato e non ostacolato in questa sua tendenza naturale.

L’idea del Kids’ Workshop nasce dalla convinzione dell’Autrice che i bambini, già da piccolissimi, abbiano innata una sincera curiosità verso tutto ciò che li circonda e una volontà di comunicare in modo diretto, esprimendo, cioè, tutto ciò che provano (Williams, 1992).  Per la Williams, allora, facilitare la crescita significa riuscire a riconoscere e mantenere, fortificandole, tali tendenze innate.  Le tendenze innate da preservare sono, secondo l’Autrice, le qualità rogersiane della fiducia, dell’empatia, della congruenza e dell’accettazione positiva incondizionata, oltre alla creatività e al rispetto dell’ambiente derivato dalla consapevolezza. Lo strumento principe per ottenere tale obiettivo è la creazione di un setting che favorisca l’instaurarsi di un contesto relazionale empatico ed accettante che permetta di ascoltare i bambini e scoprire i loro bisogni.

Un impatto sicuramente molto forte sull’ideatrice del Kids’Workshop lo ha avuto proprio la filosofia di vita dei nativi Americani basata su pochi e semplici concetti ma nel contempo estremamente profondi e significativi, un popolo considerato saggio proprio per il suo contatto costante con la Natura, che gli ha permesso di vivere in armonia con l’ambiente e con gli altri esseri viventi. Nel kids’ Workshop infatti trovano espressione molti aspetti che nascono proprio dal contatto dell’Autrice con la filosofia degli Indiani d’America, come l’idea di nutrire un profondo rispetto per ogni persona, fin dal momento della sua nascita, e una fiducia nella sua capacità di crescita con una sua  modalità e con i suoi propri tempi.  L’uso all’interno del laboratorio delle loro storie, delle loro danze e della loro musica facilita e rinforza nei bambini una maggiore vicinanza alla Natura, rendendoli più consapevoli della Madre Terra e dell’ambiente e li aiuta a comprendere l’importanza di prendersene cura. Uno dei valori più significativi è il concepire la persona come una integrazione di più livelli: fisico, emotivo, spirituale in armonia con la natura e il mondo (Williams, 1996).

Secondo Carl Rogers il popolo Navajo conosceva la sua filosofia molto prima di lui. Tutti i principi infatti enunciati da Rogers, a partire da una visione positiva dell’essere umano, trovano la loro espressione nel Kids’Workshop di Barbara Williams (Williams, 1992, 1996; Rogers, 1980). Il laboratorio nasce proprio come luogo di incontro per i bambini con finalità preventive poiché al suo interno, le attività che vengono proposte, mirano al rafforzamento delle qualità centrate sulla persona di cui parla Rogers: empatia, accettazione positiva incondizionata e congruenza. A queste poi la Williams ha aggiunto, riportandole dalla cultura Indiana, le qualità della fiducia e della contestualizzazione, ovvero il rispetto per l’ambiente, ma ha parlato anche di creatività e di autostima, così come la intende Virginia Satir (1988), vale a dire la capacità di valutare se stesso e di trattarsi con dignità, amore e realismo, fattore cruciale alla base del cambiamento delle persone. L’individuo che si sente amato, è pronto a cambiare, abbassa le sue difese e permette alla sua tendenza attualizzante di fiorire. Lo spazio del Kids’Workshop si configura, pertanto, come uno spazio centrato sulla persona, nel quale i bambini attraverso attività divertenti accrescono la loro autostima, riconoscono, esprimono e condividono le loro emozioni nel pieno rispetto del loro essere individui unici e irripetibili. L’ottica prevalentemente di tipo preventivo si basa sul presupposto che se un bambino è in grado di riconoscere ciò che sente e prova riuscendo anche a dare un nome al proprio stato emotivo, ciò può facilitarlo sicuramente durante il suo sviluppo nell’affrontare in maniera più efficace le situazioni problematiche e se necessario, sarà anche più in grado di chiedere aiuto. Il fine è dunque quello di favorire nei bambini che partecipano al laboratorio un rafforzamento delle loro qualità che faciliti in loro un sano sviluppo psicologico.

Universalità del Kids’Workshop

Quanto detto nel precedente paragrafo permette di poter affermare, anche sulla base delle due sperimentazioni effettuate con gruppi di bambini frequentanti il nido, che il Kids’ Workshop può avere moltissimo senso ed efficacia anche per bambini così piccoli. Tale affermazione trova valore e forza proprio nell’universalità che caratterizza la cornice teorica di riferimento nella quale si sviluppa il laboratorio, l’Approccio Centrato sulla Persona, un approccio che da sempre si è rivelato efficace in numerosi ambiti di applicazione e di espressione, tra le quali il lavoro con i bambini (Maio, 2011).  Se si considerano le condizioni necessarie e sufficienti di cui parla Rogers (1942, 1951, 1961, 1965): empatia, accettazione positiva incondizionata e congruenza, come qualità presenti nell’individuo già dalla nascita, il laboratorio può rappresentare un’opportunità molto grande per i bambini che vi partecipano, in termini di sviluppo e rafforzamento delle suddette qualità, riconoscimento e contatto con le proprie emozioni e con quelle degli altri, capacità di condivisione dei propri vissuti nel gruppo. Accanto a ciò, il clima facilitante che caratterizza il Kids’ Workshop, permette ai bambini di esprimersi liberamente all’interno del laboratorio rispettando l’individualità e l’unicità degli altri partecipanti e sentendosi rispettati a loro volta. I bambini tra i due e i tre anni sono ancora privi di sovrastrutture derivanti dall’educazione rigida, dal giudizio, dai doppi messaggi presenti spesso nella comunicazione degli adulti. Si tratta ancora di esseri liberi, istintivi che si affacciano al mondo con una carica di autenticità, spontaneità a volte disarmante per un adulto. Il Kids come si diceva all’inizio può rappresentare un’opportunità per bambini così piccoli di crescere e svilupparsi “centrati su se stessi”, capaci dunque di affrontare la vita e le difficoltà ad essa connesse con sempre maggiore consapevolezza e forza interiore (Williams, 1992, 1996, Maio, 2011). Con i dovuti adattamenti, come vedremo in seguito, e l’uso di un linguaggio verbale molto semplice e diretto il Kids’ Workshop, come del resto abbiamo avuto modo di confermare con l’esperienza diretta, non solo è realizzabile con bambini appartenenti a questa fascia d’età ma ne accresce anche il suo potere preventivo.

Adattamenti generali apportati al Kids’ Workshop

Durante l’anno scolastico 2010-11 abbiamo organizzato presso un asilo nido di Roma, ispirato ai principi dell’Approccio Centrato sulla Persona, un primo laboratorio Kids’ Workshop sperimentale con bambini frequentanti la struttura, quindi di età compresa tra i 24 e i 36 mesi, in orario extrascolastico, ovvero nell’ora successiva all’orario di uscita usuale dei bambini. Una seconda sperimentazione argomento principale di questo nostro lavoro, è stata invece avviata durante l’anno scolastico 2011-12 presso il medesimo nido. L’intento è, oltre che raccontare e condividere l’esperienza vissuta, fare alcune riflessioni sulle differenze scaturite dalle due esperienze che ci hanno portato a delineare aspetti del laboratorio che andavano necessariamente modificati per risultare più adatti e quindi maggiormente fruibili dai bambini appartenenti a questa fascia d’età. Infatti, mentre nella prima sperimentazione il Kids’Workshop è stato proposto ai bambini in maniera non molto discostante dal modello proposto da Barbara Williams, nel laboratorio sperimentale attuato durante quest’ultimo anno scolastico, abbiamo voluto proprio lavorare su modifiche ed adattamenti ad hoc in relazione alla specifica fase evolutiva dei partecipanti. Ciò ha significato un lavoro di elaborazione, a volte molto complesso, oltre che dei singoli esercizi del Kids’ Workshop anche di tutta una serie di parametri relativi al setting e alla sua gestione. E’ importante sottolineare comunque che nel complesso la struttura del laboratorio è rimasta invariata, ciò che è cambiato è stato il modo di proporre gli esercizi ed il modo di facilitarli.

Nel presente lavoro ci interessa focalizzare l’attenzione soprattutto sugli aspetti relativi all’organizzazione del Kids, sulle costanti che abbiamo stabilito alla partenza e che sono risultate funzionali ad una buona riuscita del laboratorio, sull’individuazione dei punti di forza e di debolezza del Kids con bambini frequentanti il nido, sulle emozioni delle facilitatrici…Non entreremo invece in questa sede nello specifico degli adattamenti dei singoli esercizi della Guida per questa fascia d’età, aspetto questo che esula dalla presente trattazione e che prevede una esposizione a parte.

Il setting

Partendo dalla considerazione che nei bambini di  due-tre anni la capacità di attenzione-concentrazione è molto ridotta rispetto a bambini più grandi, abbiamo organizzato il laboratorio in incontri della durata di un’ora  con una cadenza settimanale. Sin dall’inizio abbiamo potuto verificare l’efficacia di questa scelta: un’ora infatti rappresenta il tempo “sufficiente” affinché i bambini abbiano la possibilità di calarsi nell’atmosfera del Kids, sperimentare uno o due esercizi e fare a metà dell’incontro il break.

Uno degli aspetti relativi al setting risultati più difficili da gestire durante la prima sperimentazione è stato il mantenimento della posizione dei bambini in cerchio. Nonostante la presenza del “tappeto magico”, avente il ruolo di stabilire un confine fisico per i bambini, le difficoltà nella precedente edizione sono state notevoli: i bambini non rimanevano volentieri seduti, si muovevano nella stanza spesso correndo, alzavano la voce e cercavano, a volte, di uscire dalla stanza. In questa seconda sperimentazione un fattore risultato estremamente facilitante ed efficace, è stato l’utilizzo di cuscini disposti in cerchio, aventi il ruolo di segnaposto. La loro presenza costante nella stanza ha permesso ai bambini di avere dei punti di riferimento spaziali, che li ha aiutati a non disperdersi nella stanza e di conseguenza a mantenere una maggiore attenzione su ciò che veniva loro proposto.

Anche l’ambiente scelto ha giocato un ruolo molto importante per la gestione di un gruppo di bambini così piccoli. La stanza scelta infatti era abbastanza piccola, tale da contenere sei bambini e due facilitatori seduti in cerchio, ma che ha permesso anche di fare gli esercizi di movimento comodamente. L’ambiente è stato predisposto in maniera tale da non permettere che i bambini si distraessero vedendo o potendo prendere ad esempio giochi o altro materiale non attinente al Kids. L’ambiente “neutro” ha facilitato nei bambini la concentrazione sulle attività proposte da noi facilitatori ed ha limitato a nostro avviso iperattivazioni comportamentali. L’atmosfera è rimasta per la maggior parte degli incontri abbastanza rilassata e poco caotica.

Un altro elemento sempre relativo al setting, efficace nel dare sicurezza e contenimento ai bambini, è stata la presenza di “costanti” lungo tutto il percorso. I bambini una volta invitati ad entrare nella stanza del Kids, aspettavano con impazienza la magia iniziale che li avrebbe portati nel mondo del Kids. La presenza della bacchetta magica e del puppet “maghetto”, gli occhi tenuti chiusi per creare maggiore enfasi alla situazione, ha sempre accompagnato questo momento introduttivo, al termine del quale i bimbi si sentivano liberi di fare delle osservazioni “la scuola è andata via!”, “è arrivato il Kids!”… Analogamente abbiamo mantenuto una ritualità anche alla fine di ogni sessione, invitando i bambini a mettersi in cerchio, dandosi la mano e recitare la poesia Navajo “camminare nella bellezza”. Nonostante spesso i bambini non riuscissero a rimanere in cerchio per tutto il tempo della poesia, abbiamo notato come, anche da posizioni periferiche rispetto al resto del gruppo, oppure impegnati a fare “altro”, i bambini sin dall’inizio hanno memorizzato la poesia.

Materiali

La presenza dei puppets (vedi foto n. 1) ha rappresentato un elemento costante durante tutti gli incontri, per tutta la durata del laboratorio. I puppets si sono confermati dei notevoli facilitatori e canalizzatori dell’attenzione dei bambini. In particolare un puppet particolarmente significativo è stato il “maghetto”, con i suoi capelli bianchi e la sua bacchetta magica, è stato sempre di supporto nell’apertura e nella chiusura della sessione Kids’ Workshop. Inoltre, ha avuto un ruolo molto importante nei momenti in cui i bambini perdevano l’attenzione su quello che stavano facendo, oppure nei momenti in cui era previsto il racconto di una favola o di una storia. E’ stato interessante notare come fosse più catalizzante un puppet che narrava una storia piuttosto che a farlo fosse un facilitatore adulto.  Oltre al puppet “maghetto” sono entrati in gioco in quasi tutti gli incontri altri puppet raffiguranti animali come il leone, la coccinella, il cane, il gatto etc., utilizzati costantemente per interagire con i bambini, soprattutto quando nascevano delle conflittualità tra loro o quando qualche bambino tendeva ad estraniarsi dal gruppo. Un aspetto particolarmente significativo che abbiamo rilevato attraverso questa esperienza, è relativo al numero di puppets da utilizzare con i gruppo. Possiamo affermare infatti che più numerosi sono i puppets a disposizione dei bambini per giocare e farli interagire tra loro, più è facile che si manifesti aggressività, conflittualità e iperattività nel gruppo. Minori invece sono gli stimoli, nel caso specifico i puppets, migliore è la qualità dell’esercizio. Di puppets quindi ce ne dovrebbero essere a disposizione tanti quanti sono i bambini più 2-3 in più per permettergli delle alternative.

Facilitatori e facilitazione

Nonostante il gruppo di bambini fosse costituito da un numero minimo di partecipanti, si è dimostrato essenziale la presenza nel gruppo di due facilitatori: uno principale ed un altro con un ruolo più di supporto. Il facilitatore principale si è occupato sempre di aprire e chiudere le sessioni Kids, ha proposto gli esercizi ed ha introdotto sempre il break. Il secondo facilitatore si è occupato dei bambini che tendevano ad uscire dalle attività proposte, dei conflitti che emergevano tra loro, ma anche di fare da modello nei vari esercizi o nelle condivisioni dei propri vissuti rispetto all’esperienza fatta. L’identità del laboratorio è stata rafforzata dall’utilizzo delle magliette create ad hoc per il KW indossate durante gli incontri dalle facilitatrici.

Molto impegno ha richiesto l’individuazione di una modalità che fosse più appropriata non solo per interagire con i bambini, ma soprattutto per mantenere il più alto possibile il loro livello di attenzione. Un elemento risultato efficace in tal senso è stato citato precedentemente ed è relativo all’uso dei puppets. Di fatto le nostre riflessioni si sono spinte oltre al fine di individuare le “pratiche” per sostenere maggiormente le curiosità e gli interessi dei bambini, che fossero efficaci nell’accompagnare, ma anche accattivare e catturare gli interessi dei bambini attraverso l’uso del “linguaggio narrativo” (Sunderland, 2000). L’esperienza sul campo ci ha permesso di individuare tre elementi: – l’utilizzo del testo come traccia per la storia o per la favola narrata, – l’utilizzo delle immagini come aggancio illustrativo che serve ai bambini per seguire il filo della narrazione, anche se può avere degli effetti limitativi sulla creatività, e – l’utilizzo della voce, per caratterizzare i vari personaggi.

Facendo leva su aspetto caratteristico di questa fascia d’età, vale a dire la curiosità, abbiamo proposto spesso le attività anticipandole con un “effetto sorpresa”  che incuriosendo, appunto, i bambini, creava in loro le condizioni per un ascolto attento e partecipato a ciò che gli veniva proposto.  

Rispetto al modo di proporre gli esercizi proposto da Barbara Williams, abbiamo trovato molto efficace introdurre il momento del disegno (vedi foto n. 2) al termine di ogni esercizio proposto. Per i bambini in generale, ma in particolare per questa fascia d’età, il disegno rappresenta un canale per “integrare” l’esperienza. Essendo ancora il linguaggio verbale non totalmente sviluppato e quindi non adeguato a trasformare l’esperienza in parole, l’espressione grafica può proprio ottemperare a questo (Malchiodi, 1998).

Il break (vedi foto n. 3) ha rappresentato un momento particolarmente atteso dai bambini. Lo abbiamo proposto a metà circa dell’incontro mettendo a disposizione un certo numero di caramelle tale da permettere ai bambini di scegliere di prenderne una o più. C’è stato un rilevante cambiamento dal primo incontro ad oggi relativo alla quantità di caramelle venivano prese. Infatti i partecipanti che all’inizio facevano una vera e propria “scorta” di caramelle, per se e per la propria famiglia, con il passare del tempo hanno cominciato a prenderne un numero inferiore, denotando così una maggiore autoregolazione sia rispetto a se stessi sia rispetto al gruppo. Il break si delinea dunque come uno spazio importante durante il Kids perché facilita la condivisione e l’autoregolazione dei bimbi, creando uno spazio di rilassamento e calma.

Raccontiamo l’esperienza fatta

L’età compresa tra i due e i tre anni è un momento di crescita molto affascinante in quanto i bambini, avendo raggiunto una sufficiente autonomia di movimento nell’ambiente, cominciano a familiarizzare con le emozioni, ad esplorare le dinamiche di relazione con il gruppo dei pari, a sperimentare il loro potere personale attivando meccanismi di opposizione all’adulto, ad avere una rappresentazione interna della realtà tale da consentirgli di agire il gioco simbolico e ad utilizzare il linguaggio come strumento di comunicazione efficace non solo per esprimere i loro bisogni e desideri, ma soprattutto per condividere le loro esperienze. È in questa fase che le qualità innate descritte da Rogers della fiducia, dell’empatia, della congruenza e dell’accettazione positiva incondizionata di cui i bambini sono dotati, oltre alla capacità di comunicare in modo diretto, divengono palesi e si misurano nelle relazioni che i bambini hanno con l’ambiente sociale di riferimento (adulti e gruppo dei pari).

L’ipotesi di partenza, già condivisa in precedenza, che ci ha ispirato a voler rendere il laboratorio esperienziale della Williams fruibile anche ai bambini al di sotto dei tre anni, è che fortificare queste qualità nel momento in cui cominciano a manifestarsi e prima ancora che l’influenza dell’ambiente possa distorcerle o reprimerle, sia uno strumento di facilitazione per un processo di crescita che porti il bambino a sviluppare una personalità sana ed integrata; uno strumento, cioè di promozione della salute e di prevenzione del disagio.

Il lavoro si è svolto all’interno del “Centro delle Coccole”, un asilo nido convenzionato con il Comune di Roma, frequentato da bambini appartenenti a famiglie di ceto sociale medio. La programmazione didattica di questo asilo nido è ispirata ai principi della pedagogia che Carl Rogers ha espresso in Freedom to Learn (1969): tutto il personale è stato formato in tal senso attraverso un percorso di formazione appositamente progettato e la partecipazione al corso Insegnanti efficaci di T. Gordon; il gruppo formativo fa, già da due anni, supervisione e gruppi di incontro con una counsellor e una psicologa formate secondo l’Approccio sulla Persona; gli incontri mensili tra educatori e genitori sono strutturati come gruppi di confronto/incontro sulle tematiche legate alla facilitazione della crescita dei bambini verso l’autonomia. Quindi l’esperienza del Kids’ Workshop si è incastonata in un ambiente non ostacolante.

Abbiamo svolto il Kids’ Workshop con il gruppo di bambini della classe dei “germogli”: 9 bambini di cui 4 maschi e 5 femmine, tutti tra i 24 e i 27 mesi all’inizio dell’esperienza. Del gruppo tre bambini (Valerio, Elisa e Sofia) hanno fratelli più grandi e una bambina (Gaia) ha un fratello più piccolo. Nessuno dei piccoli aveva mai avuto precedenti esperienze di Kids’ Workshop.

Abbiamo cominciato gli incontri a partire dalla metà di ottobre 2011 con una cadenza settimanale; anche se a volte, per motivi legati alle festività o all’organizzazione interna del nido, la frequenza ha subito delle variazioni. Sono state fino ad oggi svolte 17 sedute di laboratorio. Ogni incontro, della durata di un ora, era strutturato con delle parti costanti ed una fase centrale variabile. Ciò che variava di volta in volta era l’esercizio proposto, scelto tra quelli considerati fondamentali dalla guida. Facevano parte della routine di ogni incontro, invece, la magia iniziale e la fase conclusiva costituita dalla recitazione della poesia dei Navajo recitata in cerchio e la magia finale.

In fase di progettazione, abbiamo stabilito, avvalendoci dell’esperienza fatta l’anno precedente, di utilizzare tecniche di facilitazione efficaci con la particolare fascia di età. La prima è stata quella di curare il setting rendendolo scevro da elementi che potessero essere per i bambini fonte di attrazione e distrazione. Abbiamo scelto di essere costantemente in due in modo da rispondere sempre alle richieste di attenzione e rassicurazione, molto frequenti nei bambini di questa età. La co-facilitazione si è rivelata anche importante per offrire ai piccoli una rappresentazione concreta di quanto l’esercizio, di volta in volta presentato, richiedeva. Per i bambini di questa età, infatti, non è facile decodificare mentalmente quanto viene comunicato con le parole. Oltre a mettere in atto le qualità rogersiane di congruenza, accettazione ed empatia, abbiamo ritenuto opportuno come facilitatori adottare uno stile di comunicazione narrativo molto attento al non verbale (postura, gesti, modulazione della voce, mimica) e la tecnica di ambientazione fantastica (uso della fiaba e della magia) durante la spiegazione degli esercizi.

Ha fatto parte della fase di progettazione anche il riadattamento degli esercizi proposti dalla Williams. Lavoro, questo, necessario per rendere le proposte comprensibili per i diretti interessati ed in linea con le loro competenze allo scopo di evitare che la frustrazione per la difficoltà del compito potesse inficiare i benefici effetti che tale esperienza ha più volte dimostrato di generare nei bambini più grandi che l’hanno vissuta. Tali riadattamenti sono stati progettati inizialmente sulla base della conoscenza che ci siamo costruite negli anni di lavoro con i bambini nell’ambito della relazione terapeutica, nel campo educativo e dell’animazione.

La documentazione dell’esperienza è avvenuta in due fasi: durante gli incontri con l’uso di videocamere e macchine fotografiche; dopo gli incontri con la compilazione di una scheda dove venivano riportate di volta in volta le caratteristiche generali dei singoli incontri (orario, data, luogo, presenze, frequenza, esercizi svolti) e i feedback dei due facilitatori. Il rilievo che di volta in volta i facilitatori hanno dato a ciò che durante l’incontro aveva funzionato e a ciò che, invece, poteva essere migliorato, ci ha permesso di apportare, agli adattamenti ideati su base teorica, successivi miglioramenti in termini di efficacia.

Mentre alcuni esercizi, come conoscersi attraverso i puppets, muoversi e danzare, il mio animale preferito, esprimi tre desideri, hanno richiesto pochissime modifiche rispetto all’originale, altri come i messaggi diretti e le maschere  sono stati modificati in modo importante. Ad esempio l’esercizio dei messaggi diretti è stato suddiviso in 4 fasi, ognuna corrispondente ad un incontro. Il primo incontro è stato dedicato alla spiegazione, utilizzando lo stile narrativo, del concetto di messaggio diretto e doppio messaggio, alla sperimentazione su sé stessi attraverso il riconoscimento allo specchio delle espressioni mimiche che accompagnano il messaggio e al riconoscimento della congruenza tra verbale e non verbale quando l’altro (il maghetto) esprime un messaggio diretto o doppio. Durante la seconda fase abbiamo proposto ai bambini un gioco di ruolo (la festa di compleanno della zia) per dare loro la possibilità di sperimentare in prima persona cosa si prova e cosa prova l’altro quando si da o si riceve un messaggio diretto piuttosto che un doppio messaggio. Al fine di familiarizzare ed interiorizzare il concetto dei messaggi diretti abbiamo strutturato il terzo incontro proponendo ai bambini il teatro dei burattini. L’esercizio consiste nell’animare, di fronte al pubblico costituito dal gruppo di bambini, due puppets che si scambiano informazioni e condividono le emozioni in relazione ai messaggi diretti e doppi. Osservare due puppets parlare tra loro, permette ai bimbi di immedesimarsi nei personaggi e ascoltare le loro parole consentendogli di rielaborare a distanza emotiva quello che hanno appreso sull’argomento grazie all’esperienza fatta durante gli esercizi precedenti. Infine la fase finale del lavoro sui messaggi diretti ha avuto come obiettivo quello di ricontestualizzare l’esperienza fatta nei tre incontri precedenti attraverso la narrazione di una fiaba appositamente costruita utilizzando un linguaggio multisensoriale che fosse massimamente coinvolgente per i bambini in modo che loro potessero rivivere, immedesimandosi con i personaggi della storia, gli svantaggi dell’uso dei messaggi doppi ed i vantaggi dell’uso dei messaggi diretti.

Alcuni degli esercizi previsti dal Kids’ Workshop, sono stati esclusi dalla versione per i più piccoli perché troppo complessi. Ad esempio, l’esercizio de il fiore immaginario è stato escluso in quanto i bambini al di sotto dei tre anni non sono in grado di immaginare nulla di cui non abbiano avuto un esperienza diretta e non hanno ancora acquisito il concetto temporale.

Nonostante la giovanissima età tutto il gruppo di bambini si è da subito interessato al laboratorio e a tutto ciò che vi accadeva all’interno. La gioia con la quale ogni volta venivamo accolte, ci ha convinto del vissuto emotivo positivo che i piccoli avevano dell’esperienza. Alcuni di loro hanno partecipato da subito in modo attivo sentendosi liberi di esprimere con il comportamento e con il verbale i loro sentimenti e i loro bisogni. Per altri c’è voluto più tempo; hanno avuto bisogno di osservare e di verificare che quello che si faceva non fosse per loro pericoloso. Già dalla metà del percorso, però, anche questi piccoli hanno preso fiducia e si sono lasciati coinvolgere. L’attività più gradita al gruppo è stata quella del familiarizzare con i puppets. Dato che avevamo rilevato anche l’anno precedente in occasione della prima esperienza di somministrazione ad un altro gruppo di piccolissimi e che ci aveva fatto decidere da subito di proporre tale esercizio ogni volta che il tempo dell’incontro lo permettesse. Se in un primo momento i puppets liberavano emozioni di aggressione agite con giochi di divoramento e lotta e favorissero pochi scambi comunicativi e soltanto con l’adulto, dopo un po’ di incontri gli scambi relazionali tra il gruppo dei pari hanno rappresentato l’attività prevalente.

Conclusioni

Complessivamente riteniamo che questa avventura sia stata un’esperienza positiva per i bambini che hanno potuto sperimentare uno spazio dove esprimere la loro creatività, vivere liberamente le loro emozioni, consapevolizzandole e imparando a gestirle e sperimentarsi nella relazione con l’altro in un clima di rispetto, accettazione e fiducia. Riteniamo, inoltre, che sia stata un esperienza positiva anche per noi facilitatori per la ricchezza che i bambini hanno saputo trasmetterci in termini di autenticità e affetto e per le conferme che abbiamo ricevuto alle ipotesi dalle quali siamo partite.

 

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[1] L’assimilazione consiste nella capacità del bambino di incorporare in schemi comportamentali già noti, acquisiti (come il camminare per un bambino di tre anni) i dati dell’esperienza (camminare su un tappeto mobile).

[2] Grazie all’accomodamento gli schemi posseduti vengono modificati per essere adattati ai nuovi dati (il bambino adatterà il suo passo alla velocità e alla direzione del tappeto).

[3] Si ha adattamento quando c’è equilibrio tra l’assimilazione e l’accomodamento

[4] La prova consiste nel presentare al bambino una scenetta con due personaggi: il personaggio A (Sally) mette un oggetto (una biglia) in un luogo X (dentro un cestino) ed esce; in sua assenza il personaggio B (Anne) sposta l’oggetto dal luogo X (il cestino) al luogo Y (dentro un cassetto). Quando Sally torna decide di andare a prendere la sua biglia. Si chiede quindi al bambino dove Sally andrà a cercare la biglia. La risposta che l’avrebbe cercata dentro il cestino (cioè dove Sally pensa che sia e non dove realmente si trova) corrisponde al riconoscimento della falsa credenza da parte del bambino.

[5] L’attaccamento sicuro caratterizza i bambini che hanno avuto una madre sensibile ai loro segnali e responsabile nel rispondere in modo soddisfacente alle loro richieste. Questi bambini sono capaci di equilibrare il comportamento esplorativo con quello di attaccamento, confidando nella responsabilità della madre nelle situazioni di pericolo e mantengono una sicurezza interna che consente loro di esplorare il mondo. L’attaccamento insicuro o evitante è tipico dei bambini la cui madre si è mostrata insensibile ai loro segnali e rifiutante al contatto fisico. Mostrano uno spiccato distacco ed evitamento della vicinanza con la madre; in assenza di quest’ultima si mostrano indifferenti e non reagiscono alla separazione. I bambini che mostrano un attaccamento ambivalente, infine, hanno avuto una madre imprevedibile nelle risposte. Essi appaiono completamente assorbiti dalla figura di attaccamento, ma non riescono ad utilizzarla come base sicura da cui partire per esplorare l’ambiente. Durante la separazione dalla madre esprimono segni di stress, disagio, angoscia.

Una sperimentazione nel nido con bambini tra i 2 e i 3 anni

di Francesca Coddetta, Sabrina Maio

 Introduzione al lavoro del Kid’s Workshop

Il presente lavoro vuole descrivere un’esperienza sperimentale di applicazione del laboratorio Kids’ Workshop di Barbara Williams ad un gruppo di bambini di 2-3 anni di un asilo nido di Roma. Quello ideato dalla Williams negli anni ’70 è un laboratorio esperienziale che, ispirato al paradigma rogersiano, lavora sul rafforzamento delle qualità centrate sulla persona – accettazione, empatia e congruenza – e sulla valorizzazione della creatività e della comunicazione diretta.

L’efficacia del Kids’ Workshop ai fini della promozione di un sano sviluppo della personalità è stata nel tempo ampiamente comprovata con gruppi di bambini di età compresa tra i 4 e i 12 anni, come verrà descritto successivamente nel paragrafo dedicato. L’ipotesi che ci ha ispirato a sperimentare il KW con bambini più piccoli, è che le caratteristiche evolutive della fascia di età compresa tra i due e i tre anni sembrano particolarmente adatte all’incontro con i concetti e principi alla base del laboratorio. In questo periodo evolutivo, infatti, si osserva la fase iniziale di importanti conquiste come: l’uso della parola ai fini della comunicazione con l’altro; il riconoscimento e la differenziazione delle emozioni di base – paura, gioia, rabbia, stupore, tristezza – sia su di sé che sull’altro; la sperimentazione delle relazioni tra pari; la rappresentazione mentale della realtà – simbolizzazione e teoria della mente. Proporre il Kids’ Workshop in questa fase evolutiva può permettere, dunque, il rafforzamento di tali apprendimenti in un modo che sia immediato e congruente con la tendenza attualizzante dell’individuo in funzione del proprio benessere. Mentre l’applicazione del Kids’ Workshop con bambini più grandi necessita di una prima fase di evidenziazione e consapevolizzazione degli apprendimenti disfunzionali prima di passare alla fase di vero e proprio rafforzamento e valorizzazione delle qualità centrate sulla persona.

Vogliamo iniziare la presente trattazione fornendo un quadro teorico di riferimento relativo al processo di sviluppo durante la fase di crescita che va dai 2 ai 3 anni con la duplice prospettiva di chiarire l’utilità e i vantaggi che può avere per il bambino l’esperienza legata al kids’Workshop e di motivare gli adattamenti che sono stati apportati agli esercizi originali progettati dalla Williams.

Caratteristiche della fase evolutiva: fascia 2-3 anni

Secondo la teoria della personalità di C. Rogers (1951, 1961, 1965), i primi anni di vita sono fondamentali per la strutturazione di una personalità sana, in quanto l’individuo, essendo all’inizio del suo percorso evolutivo, è in uno stato di maggiore dipendenza dalle influenze esterne. In altre parole, l’essere umano, che naturalmente tenderebbe ad uno sviluppo positivo verso l’autorealizzazione, nel periodo della prima infanzia, essendo particolarmente vulnerabile, può più facilmente venire deviato nel suo percorso di crescita, da un ambiente che lo allontani dalla sua “Tendenza Attualizzante”, ovvero un sistema motivazionale intrinseco alla natura umana che ne determina lo sviluppo e ne dirige il comportamento.

La presenza di un ambiente facilitante è, allora, in special modo importante nella fascia 2-3 anni.

Ma, quali caratteristiche deve avere l’ambiente per essere definito come facilitante?

Per poter identificare le caratteristiche che l’ambiente biologico, culturale e sociale deve avere per essere facilitante si deve necessariamente partire dalle principali modificazioni a cui il cucciolo d’uomo va incontro durante questa fase di vita. Lo sviluppo deve essere osservato secondo tutti i diversi aspetti della maturazione: neuromotorio, sensoriale, cognitivo, affettivo e relazionale. In genere esso segue modalità fisse nella comparsa dei vari schemi di comportamento; modalità che sono descritte nelle scale di sviluppo (Gesel 1926, Brunet-Lezine 1951, Griffiths 1954). Nonostante siano descrivibili tappe di sviluppo con tempi e ritmi abbastanza costanti che permettono di parlare di percorso di crescita fisiologico del bambino, occorre, però, ricordare che ogni bambino ha ritmi di crescita differenti, mai del tutto simili a quelli degli altri coetanei. Infatti, l’evoluzione maturativa avviene attraverso lo sviluppo di diverse aree della personalità ciascuna con la propria struttura ed un proprio ritmo evolutivo che si integrano ed interagiscono tra loro rendendo ogni individuo unico. Le aree in questione sono:

  • l’area corporea da cui dipende la motricità, la tendenza alla conservazione e lo sviluppo di strutture specifiche come la capacità di orientamento spazio-temporale, la capacità di equilibrio e la capacità di coordinamento oculo-motoria;
  • l’area cognitiva a cui si deve la capacità di elaborare gli input e la comprensione degli stimoli, la capacità di simbolizzazione, la capacità mnemonica nonché la capacità di pianificare il proprio comportamento in funzione di un progetto;
  • l’area affettiva che controlla l’emotività, la motivazione alla risposta agli stimoli, il senso di autostima;
  • l’area sociale da cui dipende la capacità di rispetto e di collaborazione di un individuo verso la società nella quale è inserito.

La personalità di un essere umano può dirsi sana ed integrata, quando le diverse aree sopra descritte seguono un processo di maturazione armonico.

 Lo sviluppo motorio

L’area di sviluppo motorio verrà trattata in modo molto sintetico essendo la meno determinante rispetto ai principali obiettivi del kids’ Workshop.

La motricità (Camaioni, 1999) consiste nella capacità di compiere tutti i movimenti possibili con il proprio corpo. Lo sviluppo dell’area motoria è, quindi, alla base dei processi di interazione con l’ambiente e con gli altri e consente al bambino di iniziare a variare i “punti di vista” e le “prospettive”. La capacità motoria permette, inoltre, l’accrescimento psicofisico e l’acquisizione dell’autonomia individuale. Nel corso dell’età pre-verbale il bambino è “un essere principalmente motorio”, la motricità pertanto condizionerà lo sviluppo ed il raggiungimento delle tappe maturative fondamentali. Possiamo affermare che il movimento accompagna lo sviluppo delle conoscenze del bambino, e quando queste passano sotto il controllo dell’intelligenza verbale, rimane un indicatore importante dei modi in cui si esteriorizza l’attività psichica. Lo sviluppo dello schema motorio dipende dal coinvolgimento di tre fattori: il sistema nervoso e l’apparato muscolo-scheletrico che si sviluppano attraverso una serie di fasi determinate sia dalla genetica che da stimoli esterni e, terzo fattore, l’ambiente che può stimolare e motivare il bambino in modo diverso e perciò provocare risposte differenti. Dunque un ambiente di crescita che sia strutturato in modo tale da permettere al bambino di muoversi in modo libero e sicuro rappresenta un fondamentale strumento di formazione di una personalità autonoma. In particolare lo sviluppo motorio del bambino è strettamente legato allo sviluppo dell’intelligenza intesa come forma di adattamento all’ambiente che permette di moltiplicare gli scambi positivi tra il mondo circostante ed il proprio corpo a vantaggio di quest’ultimo.

Aspetti dell’area cognitiva

Gli aspetti dell’area cognitiva interessanti per il Kids’ Workshop sono quelli relativi alla capacità di simbolizzazione e alla costruzione mentale della realtà.

Lo sviluppo dell’area cognitiva comincia con la capacità di percepire l’ambiente. Esiste una vastissima letteratura sull’argomento e molti sono gli studiosi che hanno formulato teorie sullo sviluppo cognitivo. Per ragioni di sintesi ne citeremo soltanto alcune.

Secondo Piaget (1896-1980), l’intelligenza è un prolungamento del nostro adattamento biologico all’ambiente in quanto l’uomo è biologicamente e geneticamente dotato di una predisposizione che gli permette di superare i limiti imposti dalla natura e di agire sull’ambiente, modificandolo in base alle sue esigenze (Camaioni, 1999). Il bambino, attraverso l’intelligenza costruisce, infatti, delle nuove strutture mentali che gli servono per comprendere e spiegare l’ambiente. Ciò avviene mediante un progresso evolutivo che accompagna l’intero periodo di crescita del soggetto, caratterizzato dall’avvicendarsi dei processi di assimilazione[1], accomodamento[2] e adattamento[3]. Infatti secondo Piaget, lo sviluppo cognitivo è possibile solo in funzione di questi processi. Esso ha sia la caratteristica di essere continuo, in quanto governato da funzioni invarianti di adattamento ed accomodamento, sia di essere discontinuo in quanto con il crescere dell’età si verificano modificazioni strutturali chiamate dall’Autore “stadi di sviluppo”. Ogni stadio prevede una forma particolare di organizzazione psicologica con proprie conoscenze ed interpretazioni della realtà. Piaget distingue quattro stadi di sviluppo. Tra questi lo stadio preoperazionale che va dai 2 ai 6 anni è quello di interesse della nostra trattazione. Durante questo periodo di sviluppo il bambino acquisisce la capacità rappresentativa che gli consente di utilizzare oggetti, immagini, azioni o parole come simboli di qualcos’altro. Questa capacità, alla base della costruzione di molti degli esercizi del laboratorio della Williams, si evidenzia per alcune attività che il bambino mette in essere: l’imitazione differita, cioè imitare un comportamento osservato in precedenza anche in assenza del modello (ad esempio negli esercizi del “fiore immaginario”, “il mio posto preferito”, “trasformarsi in animali”); il gioco simbolico, ossia utilizzare un oggetto al posto di un altro (ad esempio negli esercizi “conoscersi attraverso i puppets”,“le maschere”); il linguaggio, ossia utilizzare parole o semplici frasi per rappresentare la realtà (ad esempio negli esercizi “i messaggi diretti”,“esprimi tre desideri”).

La teoria di Piaget ha trascurato il ruolo che l’area sociale ha nello sviluppo dell’intelligenza. Vygotsky (1896-1934) fece, di contro, un tentativo di spiegare lo sviluppo della cognizione come strettamente interconnesso con la socializzazione. La teoria, formulata da Vygotskij (1934) si fonda sul concetto di zona di sviluppo prossimale. La zona cognitiva entro la quale un bambino riesce a svolgere, con il sostegno di un adulto o in collaborazione con un pari più capace, attraverso la mediazione degli scambi comunicativi, compiti che non sarebbe in grado di svolgere da solo. Il concetto di zona di sviluppo prossimale sottolinea anche l’importanza del principio di prontezza, che aumenta la necessità per un soggetto di essere preparato ad acquisire un certo contenuto. Proporre il Kids’ Workshop nella fase evolutiva tra i due e i tre anni, può, allora, in linea con il concetto di zona di sviluppo prossimale, permettere il rafforzamento di apprendimenti come l’uso del linguaggio, l’alfabetizzazione emotiva, la capacità di relazione interpersonale.

Bruner (1915-1995), ispirandosi alla teoria di Vygotskij, propose una teoria nell’ambito dello sviluppo cognitivo che identifica gli elementi di interazione sociale come una parte integrante dell’elaborazione delle informazioni (Bruner, 1956). Infatti, secondo questo Autore, l’apprendimento per l’essere umano è essenzialmente un’attività che coinvolge la co-costruzione della conoscenza e dipende dalla possibilità di trovare soluzioni a problematiche utilizzando strategie di ricerca di elementi di regolarità nei fenomeni ambientali. Il laboratorio proposto dalla Williams, essendo un laboratorio fondato sulla collaborazione e condivisione in gruppo di più individui tra loro, facilita il rafforzamento delle qualità centrate sulla persona proprio attraverso l’interazione sociale.

La Teoria della Mente

A partire dalla fine degli anni 80 si è andato sviluppando nell’ambito della psicologia dello sviluppo, un paradigma conosciuto come “Teoria della Mente”. Tale paradigma intende la “teoria della mente” come una competenza che gli esseri umani sviluppano di capire gli altri in termini di stati mentali, cioè la capacità di attribuire stati interni, quali desideri, credenze, a sé e agli altri e di prevedere il comportamento proprio e altrui sulla base di tali stati. Negli ultimi anni si sono sviluppati molti studi per comprendere i possibili processi che portano allo sviluppo di questa abilità nei bambini. Pionieri sono stati i lavori sperimentali di Premach e Woodruff del 1978 e il “compito della falsa credenza[4]” ideato da Wimmer e Perner nel 1983. Secondo questi ultimi due Autori, comprendere che l’azione di un’altra persona consegue dalla falsa credenza della persona in questione, indica che il bambino ha raggiunto la separazione concettuale tra mente e realtà e che concepisce gli stati mentali come cause del comportamento. Il mondo accademico è, in linea generale, concorde nel ritenere che ciò non possa accadere prima dei 4 anni di età del bambino. Tuttavia ci sono evidenze di una conoscenza della mente a partire dai 2-3 anni di età in quanto i bambini sono in grado di comprendere e sviluppare il gioco simbolico e di prevedere il comportamento altrui sulla base dei desideri. Gli stati fisiologici e le emozioni fondamentali ad essi collegate sono per i bambini così piccoli generatori di desideri che si traducono in azioni comportamentali funzionali al loro soddisfacimento. Il successo o meno di tali azioni produce reazioni emotive di piacere o dispiacere che contribuiscono alla stabilizzazione o meno del comportamento stesso. Essi, però, non sono ancora in grado di riconoscere le false credenze in quanto non si rendono conto della differenza tra ciò che viene pensato e ciò che accade realmente.

Simon Baron-Cohen (1958), ha individuato come la competenza della rappresentazione interna degli stati mentali sia fondamentale per la capacità di riconoscere ed interpretare le espressioni mimiche, per la messa in atto di comportamenti imitativi, per la possibilità di attuare il gioco simbolico e per sviluppare la capacità di partecipare ad attività che richiedono la condivisione dell’attenzione. Si può dedurre, allora, che tale competenza sia legata ad un “sistema rappresentazionale” che consente al bambino di rendersi conto degli interessi e dei modelli che l’Altro utilizza nella sua mente per comprendere la realtà (S. Baron-Cohen 1995; Lesile 1991; Frith 1999).

Tali osservazioni portano a considerare come la competenza della mentalizzazione sia fondamentale per lo sviluppo dell’area affettivo-relazionale della personalità. Infatti la capacità di “pensare” gli stati mentali propri e degli altri (sentimenti, desideri, intenzioni e gli stessi pensieri) sta alla base della possibilità dell’uomo di mettersi in relazione con i suoi simili, di essere cioè un “animale sociale”. In effetti la competenza cognitiva procede, lungo lo sviluppo, insieme alla competenza affettiva e alla competenza sociale, in modo indissolubile. Il logico passo successivo del nostro viaggio conoscitivo è dunque quello di esplorare le modalità di sviluppo nei bambini della sfera emotiva e della sfera sociale della personalità…..

La competenza emotiva

La competenza emotiva è una capacità complessa del soggetto adulto che consiste nella facoltà di costruire relazioni interpersonali positive che favoriscono comportamenti socializzanti. Nei vari approcci metodologici allo studio della competenza emotiva sono state individuate tre chiavi di lettura: la comprensione della natura delle emozioni, la loro causa e la regolazione delle stesse.

Le teorie più recenti hanno messo in luce che gli affetti assumono il loro significato nelle relazioni e negli scambi comunicativi in cui si definisce l’esperienza emotiva. Da ciò emerge con chiarezza che le relazioni interpersonali giocano un ruolo fondamentale nella socializzazione emotiva in quanto sono il contesto in cui il bambino impara il significato delle emozioni e la loro comunicazione, nonché le modalità socialmente accettabili della loro espressione. L’esperienza emotiva, quindi, affonda le sue radici nella cultura cui fa riferimento: la medesima emozione può assumere significati diversi a seconda dei contesti. Il modo in cui l’adulto che si prende cura del bambino gestisce le emozioni nel rapporto col bambino stesso, può influire profondamente nello sviluppo della competenza emotiva e su come il bambino riuscirà in seguito a regolare le proprie emozioni in modo socialmente adeguato ed efficace. Il Kids’ Workshop in linea con quanto detto, enfatizza l’importanza dell’accettazione incondizionata da parte del facilitatore di tutte le emozioni espresse dai bambini come anche della loro libertà di non condividerle in gruppo. L’accettazione comunica all’individuo bambino il rispetto ed il riconoscimento di lui come persona e questo faciliterà lo stabilirsi della fiducia nella relazione e l’efficacia degli apprendimenti proposti.

Le emozioni complesse cominciano ad apparire intorno ad 1 anno, ma il bambino sarà in grado di padroneggiarle soltanto intorno ai tre anni. L’importanza dei primi legami affettivi del bambino, in particolare con la madre, per lo sviluppo della competenza affettivo-relazionale è stato un concetto alla base della teoria di Bowlby (1907-1990) sull’attaccamento. Per questo Autore i primi legami affettivi del bambino con le figure adulte di riferimento sono fondamentali nell’acquisizione del comportamento sociale e dell’adattamento all’ambiente. Secondo Bowlby (1979, 1988), il bambino piccolo possiede, in virtù della sua dotazione genetica, una predisposizione biologica che lo porta a sviluppare un attaccamento per chi si prende cura di lui; l’attaccamento, infatti, assicura al bambino la sopravvivenza. L’Autore precisa la distinzione fra attaccamento, termine generale che si riferisce al legame intenso che può occorrere fra due o più individui, e comportamento di attaccamento, che invece definisce l’insieme di comportamenti che il bambino mette in atto dalla nascita, con modalità diverse a seconda delle fasi del suo sviluppo, per far fronte a situazioni stressanti (Bowlby 1979).

Questa teoria è stata successivamente ampliata da Mary Ainsworth (1913-1999), una allieva di Bowlby, che elaborò la nozione di “base sicura”. L’Autrice (2006), a tal proposito, ha individuato tre tipi di attaccamento che, in base alle dinamiche di relazione con la madre, il bambino può sviluppare nel primo anno di vita: l’attaccamento sicuro, l’attaccamento evitante e quello ambivalente[5].

Recentemente Fonagy e Mary Target (1997) hanno elaborato il concetto di “funzione riflessiva”. Esso si riferisce alla “ funzione mentale che permette agli individui di elaborare l’esperienza del proprio e altrui comportamento traducendola nella capacità di agire un comportamento o rispondere ad un comportamento altrui tenendo conto dello stato mentale dell’altro.

Il rispecchiamento affettivo

Fonagy (2001) ritiene che lo sviluppo della funzione riflessiva sia un processo intersoggettivo tra il bambino e chi si prende cura di lui. L’adulto, infatti, spontaneamente risponde ad un’espressione emotiva del bambino con un’emozione corrispondente: il piccolo ride, ridiamo anche noi. È questo il rispecchiamento affettivo, un comportamento di reazione all’agito altrui che implica la capacità di comprendere cosa l’altro sta provando (teoria della mente) e la capacità di comunicare tale comprensione. Il bimbo, in questo modo, osserverà fuori di sé l’emozione che sta provando internamente e potrà cosi costruirsi uno specifico schema mentale di riferimento (interiorizzazione). In altre parole, se il bambino sta vivendo uno stato emozionale interno, di agio come la gioia o di disagio come la paura, è importante che l’adulto di riferimento rispecchi quella stessa emozione che sta provando il piccolo. Il rispecchiamento, per essere efficace, deve essere, però, “contrassegnato”, cioè il caregiver deve rimandare al bambino un emozione che moduli l’intensità dell’affetto da lui esperito. Ad esempio se il piccolo esprime paura, l’adulto abbozza un sorriso contemporaneamente al rispecchiamento dell’espressione di paura, rendendo il sentimento meno angoscioso. Grazie al rispecchiamento, il bambino crea e organizza nella sua mente delle rappresentazioni delle emozioni riuscendo a connettere realtà esterna e stato mentale interno. Le esperienze relazionali con l’adulto che avvengono durante la prima infanzia sono allora fondamentali in quanto se il caregiver non ha un’adeguata competenza in quest’area (teoria dell’attaccamento, teoria della mente), il processo di rispecchiamento fallisce. L’adulto deve essere in grado sia di rispecchiare in modo contrassegnato (ossia di rimandare l’espressione emozionale al bambino e di rimandarla in modo da modularne l’intensità)  sia di pensare al bambino come individuo dotato di stati mentali interni; cioè di pensieri, desideri, emozioni e non trattarlo come semplice oggetto fisico (funzionamento riflessivo).

Il ruolo fondamentale della sfera emotivo-relazionale per la comprensione dello sviluppo della personalità umana, lo ritroviamo, oltre che nella teoria dell’attaccamento di J. Bowlby e nella teoria della funzione riflessiva di Main e Fonagy, anche nel paradigma rogersiano.

Teoria dello sviluppo della personalità

Carl Rogers (1902-1987) ha, infatti, sviluppato una Teoria dello sviluppo della personalità che si fonda su una concezione olistica dell’uomo (approccio Bio-Psico-Sociale) secondo la quale lo sviluppo dell’individuo dipende dal suo ambiente biologico, sociale e relazionale. Rogers (1942, 1951, 1961, 1965) spiega questo fenomeno affermando che, in generale ogni essere vivente e in particolare nel nostro caso- il cucciolo d’uomo, è munito di un sistema innato di motivazione, la tendenza attualizzante, che consiste in una forza motrice diretta allo sviluppo delle capacità utili al mantenimento, alla autoregolazione e autorealizzazione del bambino stesso. Oltre a ciò, la persona è dotata anche di un sistema innato di controllo, che è “il processo di valutazione organismico” che consiste nella capacità del soggetto di conoscere e comprendere sé stesso e di essere consapevole di quali siano i suoi reali bisogni. Entrambi questi sistemi comunicano internamente all’individuo mantenendo l’organismo in grado di individuare, ascoltare e accettare i propri bisogni e quindi di mettere in atto i comportamenti utili alla loro soddisfazione. Il fanciullo cioè, già dalla prima infanzia: percepisce la sua esperienza e la identifica con la realtà; tende a valutare positivamente le esperienze che percepisce come favorevoli al suo mantenimento e accrescimento e quindi le cerca e le ripete; mentre tende ad evitare le esperienze che vanno nella direzione contraria alla precedente. Rogers intende con “esperienza” tutto ciò che in un determinato momento avviene nell’organismo (pensieri, sensazioni, emozioni) e che è potenzialmente disponibile alla coscienza e quindi può essere appreso. Egli intende con “coscienza” la rappresentazione o simbolizzazione di una parte dell’esperienza vissuta di cui il soggetto è consapevole.

Secondo il paradigma rogersiano (1942, 1951, 1961, 1965) si nasce con un campo esperienziale indifferenziato. Il bambino, però, spinto dalla tendenza attualizzante e orientato dal processo di valutazione organismica, da subito agisce sull’ambiente e riceve percezioni del suo agire. Egli, cioè, attribuisce significati a tutto ciò che avviene dentro e fuori di lui. La percezione diventa un ponte di collegamento tra l’esperienza e la consapevolezza dell’esperienza stessa (simbolizzazione). Questo permette al soggetto di ripetere comportamenti che hanno procurato sensazioni soddisfacenti e di evitare quelli spiacevoli. L’agito, quindi, è determinato dalla percezione che il soggetto ha della realtà in un determinato momento e non dalla realtà in quanto tale.  Tutto ciò che non è percepito a livello conscio, viene classificato come esperienza non simbolizzata. Questo passaggio mette in evidenza quanto, per facilitare il percorso di crescita di un bambino, sia fondamentale comprendere il modo in cui egli percepisce la realtà che lo circonda. È, infatti, la percezione che crea la simbolizzazione della realtà. L’insieme delle esperienze (sé reale) e della loro simbolizzazione (sé ideale) andranno a formare la personalità del bambino, ossia la consapevolezza che il soggetto ha di esistere e di agire in quanto individuo. Una personalità ben funzionante ha una buona integrazione tra il sé ideale ed il sé reale. Questo è possibile solo se l’individuo vive in un ambiente che gli consenta la libertà di fare esperienza. È attraverso l’esperienza, infatti che il bambino riceve sensazioni, percezioni, attribuisce significati, crea ricordi; insomma, è attraverso il fare che il piccolo costruisce lo schema di riferimento, il sé reale, ossia la percezione che ha di sé stesso.

Insieme alla nozione dell’Sé si sviluppa nel bambino anche il “bisogno di considerazione positiva da parte degli altri significativi del suo ambiente sociale di riferimento. È questo un bisogno universale per il genere umano che è presente dalla prima infanzia e accompagna l’intero arco di vita della persona. Esso consiste nel desiderio del soggetto di essere accettato e amato dalle persone per lui significative e si traduce in comportamenti che possano favorire negli altri una risposta positiva. Questo vuol dire che il bambino potrà sviluppare appieno le sue capacità soltanto se l’ambiente sociale non pone condizioni all’accettazione (accettazione positiva incondizionata). Se, al contrario, l’accettazione positiva è condizionata dal fatto che il bambino metta in atto soltanto alcuni comportamenti socialmente considerati “buoni”, egli tenderà a dare importanza ai determinanti esterni piuttosto che al proprio principio di valutazione organismica nella scelta dell’agito. Il bambino, cioè, tenderà a rinforzare e ripetere i comportamenti accettati dagli altri e a negare o reprimere quelli considerati negativamente insieme al bisogno che li muove. Quest’ultimo, restando insoddisfatto, genera la percezione di un disagio che viene espresso dal bambino con comportamenti di varia natura come l’irrequietezza o l’aggressività oppure con atteggiamenti depressivi o di apatia oppure ancora con eccessivo zelo o collaborazionismo verso l’autorità. Avviene, cioè, una sorta di adattamento dell’individuo all’ambiente, in modo tale che l’individuo può, sì, sopravvivere, ma non può sperimentare ed esprimere in totale sé stesso.

Da quanto esposto, risulta chiaro che il naturale percorso evolutivo dell’individuo verso l’autorealizzazione dipenda dalla qualità facilitante dell’ambiente sociale in cui è inserito. Le relazioni con gli altri significativi sono per Rogers (1942, 1951, 1961, 1965) fondamentali per lo sviluppo di una personalità sana. L’ambiente sociale di crescita deve essere tale da consentire al piccolo la libertà dell’esperienza; da rispettare i suoi criteri di valutazione organismica; deve avere fiducia nelle capacità del bambino di trovare da solo, e in sé stesso, la forza di superare situazioni problematiche nella direzione positiva dello sviluppo ottimale; deve essere un ambiente che sappia accettare incondizionatamente le emozioni e i bisogni dell’bambino.

Un ambiente non facilitante indebolisce la forza di attuazione e può rallentare, deviare o bloccare il processo di crescita. In ogni caso la tendenza attualizzante non viene mai completamente annullata e appena il bambino, o la persona, si trova in un contesto accettante, la spinta all’autorealizzazione si riattiva e sostiene il bambino verso la ricerca di uno stato di benessere.

Partendo da tale presupposto, Virginia Axline (1911-1988), propone nel lavoro con i bambini la creazione di un setting terapeutico, la stanza del gioco, dove essi possano utilizzare il gioco come strumento per esprimere le proprie emozioni e agire liberamente i comportamenti che preferiscono. Emozioni e comportamenti che il loro ambiente sociale di riferimento tende a giudicare e a reprimere. La play room diventa un ambiente accettante ed empatico dove i bambini possono esprimere liberamente sé stessi ed esternare la loro individualità e la loro personalità; riconoscere e imparare a gestire le loro emozioni, accettare e rispettare i loro bisogni e risolvere i loro problemi. La Axline (1947) sottolinea come sia fondamentale che l’adulto che si relaziona con il bambino non sia direttivo, ma partendo dalla fiducia, lasci al bambino stesso la responsabilità del cambiamento.

Barbara Williams, riconoscendosi nei principi della Teoria dello Sviluppo della Personalità di Carl Rogers e condividendo le applicazioni che Virginia Axline ha attuato di quella teoria nel lavoro di facilitazione con i bambini, ha ideato e sviluppato il Kids’ Workshop, un laboratorio esperienziale che si pone come obiettivo principale la protezione e promozione delle innate capacità dei bambini.

Introduzione al Kids’ Workshop

Il Kids’Workshop è un laboratorio esperienziale per bambini ideato negli anni ’70 da Barbara S. Williams, psicologa statunitense, nata e cresciuta nello Stato del Colorado, a contatto dunque da sempre con la natura, con gli animali, con la cultura degli Indiani d’America e influenzata fortemente nella sua vita e nel suo lavoro da Carl R. Rogers,  Virginia Satir e Virginia Axline, alle cui filosofie si è ispirata. Il laboratorio nasce dunque dalla sintesi di diversi fattori, vicini nel considerare l’essere umano degno di rispetto e fiducia e capace di autoregolazione, se facilitato e non ostacolato in questa sua tendenza naturale.

L’idea del Kids’ Workshop nasce dalla convinzione dell’Autrice che i bambini, già da piccolissimi, abbiano innata una sincera curiosità verso tutto ciò che li circonda e una volontà di comunicare in modo diretto, esprimendo, cioè, tutto ciò che provano (Williams, 1992).  Per la Williams, allora, facilitare la crescita significa riuscire a riconoscere e mantenere, fortificandole, tali tendenze innate.  Le tendenze innate da preservare sono, secondo l’Autrice, le qualità rogersiane della fiducia, dell’empatia, della congruenza e dell’accettazione positiva incondizionata, oltre alla creatività e al rispetto dell’ambiente derivato dalla consapevolezza. Lo strumento principe per ottenere tale obiettivo è la creazione di un setting che favorisca l’instaurarsi di un contesto relazionale empatico ed accettante che permetta di ascoltare i bambini e scoprire i loro bisogni.

Un impatto sicuramente molto forte sull’ideatrice del Kids’Workshop lo ha avuto proprio la filosofia di vita dei nativi Americani basata su pochi e semplici concetti ma nel contempo estremamente profondi e significativi, un popolo considerato saggio proprio per il suo contatto costante con la Natura, che gli ha permesso di vivere in armonia con l’ambiente e con gli altri esseri viventi. Nel kids’ Workshop infatti trovano espressione molti aspetti che nascono proprio dal contatto dell’Autrice con la filosofia degli Indiani d’America, come l’idea di nutrire un profondo rispetto per ogni persona, fin dal momento della sua nascita, e una fiducia nella sua capacità di crescita con una sua  modalità e con i suoi propri tempi.  L’uso all’interno del laboratorio delle loro storie, delle loro danze e della loro musica facilita e rinforza nei bambini una maggiore vicinanza alla Natura, rendendoli più consapevoli della Madre Terra e dell’ambiente e li aiuta a comprendere l’importanza di prendersene cura. Uno dei valori più significativi è il concepire la persona come una integrazione di più livelli: fisico, emotivo, spirituale in armonia con la natura e il mondo (Williams, 1996).

Secondo Carl Rogers il popolo Navajo conosceva la sua filosofia molto prima di lui. Tutti i principi infatti enunciati da Rogers, a partire da una visione positiva dell’essere umano, trovano la loro espressione nel Kids’Workshop di Barbara Williams (Williams, 1992, 1996; Rogers, 1980). Il laboratorio nasce proprio come luogo di incontro per i bambini con finalità preventive poiché al suo interno, le attività che vengono proposte, mirano al rafforzamento delle qualità centrate sulla persona di cui parla Rogers: empatia, accettazione positiva incondizionata e congruenza. A queste poi la Williams ha aggiunto, riportandole dalla cultura Indiana, le qualità della fiducia e della contestualizzazione, ovvero il rispetto per l’ambiente, ma ha parlato anche di creatività e di autostima, così come la intende Virginia Satir (1988), vale a dire la capacità di valutare se stesso e di trattarsi con dignità, amore e realismo, fattore cruciale alla base del cambiamento delle persone. L’individuo che si sente amato, è pronto a cambiare, abbassa le sue difese e permette alla sua tendenza attualizzante di fiorire. Lo spazio del Kids’Workshop si configura, pertanto, come uno spazio centrato sulla persona, nel quale i bambini attraverso attività divertenti accrescono la loro autostima, riconoscono, esprimono e condividono le loro emozioni nel pieno rispetto del loro essere individui unici e irripetibili. L’ottica prevalentemente di tipo preventivo si basa sul presupposto che se un bambino è in grado di riconoscere ciò che sente e prova riuscendo anche a dare un nome al proprio stato emotivo, ciò può facilitarlo sicuramente durante il suo sviluppo nell’affrontare in maniera più efficace le situazioni problematiche e se necessario, sarà anche più in grado di chiedere aiuto. Il fine è dunque quello di favorire nei bambini che partecipano al laboratorio un rafforzamento delle loro qualità che faciliti in loro un sano sviluppo psicologico.

Universalità del Kids’Workshop

Quanto detto nel precedente paragrafo permette di poter affermare, anche sulla base delle due sperimentazioni effettuate con gruppi di bambini frequentanti il nido, che il Kids’ Workshop può avere moltissimo senso ed efficacia anche per bambini così piccoli. Tale affermazione trova valore e forza proprio nell’universalità che caratterizza la cornice teorica di riferimento nella quale si sviluppa il laboratorio, l’Approccio Centrato sulla Persona, un approccio che da sempre si è rivelato efficace in numerosi ambiti di applicazione e di espressione, tra le quali il lavoro con i bambini (Maio, 2011).  Se si considerano le condizioni necessarie e sufficienti di cui parla Rogers (1942, 1951, 1961, 1965): empatia, accettazione positiva incondizionata e congruenza, come qualità presenti nell’individuo già dalla nascita, il laboratorio può rappresentare un’opportunità molto grande per i bambini che vi partecipano, in termini di sviluppo e rafforzamento delle suddette qualità, riconoscimento e contatto con le proprie emozioni e con quelle degli altri, capacità di condivisione dei propri vissuti nel gruppo. Accanto a ciò, il clima facilitante che caratterizza il Kids’ Workshop, permette ai bambini di esprimersi liberamente all’interno del laboratorio rispettando l’individualità e l’unicità degli altri partecipanti e sentendosi rispettati a loro volta. I bambini tra i due e i tre anni sono ancora privi di sovrastrutture derivanti dall’educazione rigida, dal giudizio, dai doppi messaggi presenti spesso nella comunicazione degli adulti. Si tratta ancora di esseri liberi, istintivi che si affacciano al mondo con una carica di autenticità, spontaneità a volte disarmante per un adulto. Il Kids come si diceva all’inizio può rappresentare un’opportunità per bambini così piccoli di crescere e svilupparsi “centrati su se stessi”, capaci dunque di affrontare la vita e le difficoltà ad essa connesse con sempre maggiore consapevolezza e forza interiore (Williams, 1992, 1996, Maio, 2011). Con i dovuti adattamenti, come vedremo in seguito, e l’uso di un linguaggio verbale molto semplice e diretto il Kids’ Workshop, come del resto abbiamo avuto modo di confermare con l’esperienza diretta, non solo è realizzabile con bambini appartenenti a questa fascia d’età ma ne accresce anche il suo potere preventivo.

Adattamenti generali apportati al Kids’ Workshop

Durante l’anno scolastico 2010-11 abbiamo organizzato presso un asilo nido di Roma, ispirato ai principi dell’Approccio Centrato sulla Persona, un primo laboratorio Kids’ Workshop sperimentale con bambini frequentanti la struttura, quindi di età compresa tra i 24 e i 36 mesi, in orario extrascolastico, ovvero nell’ora successiva all’orario di uscita usuale dei bambini. Una seconda sperimentazione argomento principale di questo nostro lavoro, è stata invece avviata durante l’anno scolastico 2011-12 presso il medesimo nido. L’intento è, oltre che raccontare e condividere l’esperienza vissuta, fare alcune riflessioni sulle differenze scaturite dalle due esperienze che ci hanno portato a delineare aspetti del laboratorio che andavano necessariamente modificati per risultare più adatti e quindi maggiormente fruibili dai bambini appartenenti a questa fascia d’età. Infatti, mentre nella prima sperimentazione il Kids’Workshop è stato proposto ai bambini in maniera non molto discostante dal modello proposto da Barbara Williams, nel laboratorio sperimentale attuato durante quest’ultimo anno scolastico, abbiamo voluto proprio lavorare su modifiche ed adattamenti ad hoc in relazione alla specifica fase evolutiva dei partecipanti. Ciò ha significato un lavoro di elaborazione, a volte molto complesso, oltre che dei singoli esercizi del Kids’ Workshop anche di tutta una serie di parametri relativi al setting e alla sua gestione. E’ importante sottolineare comunque che nel complesso la struttura del laboratorio è rimasta invariata, ciò che è cambiato è stato il modo di proporre gli esercizi ed il modo di facilitarli.

Nel presente lavoro ci interessa focalizzare l’attenzione soprattutto sugli aspetti relativi all’organizzazione del Kids, sulle costanti che abbiamo stabilito alla partenza e che sono risultate funzionali ad una buona riuscita del laboratorio, sull’individuazione dei punti di forza e di debolezza del Kids con bambini frequentanti il nido, sulle emozioni delle facilitatrici…Non entreremo invece in questa sede nello specifico degli adattamenti dei singoli esercizi della Guida per questa fascia d’età, aspetto questo che esula dalla presente trattazione e che prevede una esposizione a parte.

Il setting. Partendo dalla considerazione che nei bambini di  due-tre anni la capacità di attenzione-concentrazione è molto ridotta rispetto a bambini più grandi, abbiamo organizzato il laboratorio in incontri della durata di un’ora  con una cadenza settimanale. Sin dall’inizio abbiamo potuto verificare l’efficacia di questa scelta: un’ora infatti rappresenta il tempo “sufficiente” affinché i bambini abbiano la possibilità di calarsi nell’atmosfera del Kids, sperimentare uno o due esercizi e fare a metà dell’incontro il break.

Uno degli aspetti relativi al setting risultati più difficili da gestire durante la prima sperimentazione è stato il mantenimento della posizione dei bambini in cerchio. Nonostante la presenza del “tappeto magico”, avente il ruolo di stabilire un confine fisico per i bambini, le difficoltà nella precedente edizione sono state notevoli: i bambini non rimanevano volentieri seduti, si muovevano nella stanza spesso correndo, alzavano la voce e cercavano, a volte, di uscire dalla stanza. In questa seconda sperimentazione un fattore risultato estremamente facilitante ed efficace, è stato l’utilizzo di cuscini disposti in cerchio, aventi il ruolo di segnaposto. La loro presenza costante nella stanza ha permesso ai bambini di avere dei punti di riferimento spaziali, che li ha aiutati a non disperdersi nella stanza e di conseguenza a mantenere una maggiore attenzione su ciò che veniva loro proposto.

Anche l’ambiente scelto ha giocato un ruolo molto importante per la gestione di un gruppo di bambini così piccoli. La stanza scelta infatti era abbastanza piccola, tale da contenere sei bambini e due facilitatori seduti in cerchio, ma che ha permesso anche di fare gli esercizi di movimento comodamente. L’ambiente è stato predisposto in maniera tale da non permettere che i bambini si distraessero vedendo o potendo prendere ad esempio giochi o altro materiale non attinente al Kids. L’ambiente “neutro” ha facilitato nei bambini la concentrazione sulle attività proposte da noi facilitatori ed ha limitato a nostro avviso iperattivazioni comportamentali. L’atmosfera è rimasta per la maggior parte degli incontri abbastanza rilassata e poco caotica.

Un altro elemento sempre relativo al setting, efficace nel dare sicurezza e contenimento ai bambini, è stata la presenza di “costanti” lungo tutto il percorso. I bambini una volta invitati ad entrare nella stanza del Kids, aspettavano con impazienza la magia iniziale che li avrebbe portati nel mondo del Kids. La presenza della bacchetta magica e del puppet “maghetto”, gli occhi tenuti chiusi per creare maggiore enfasi alla situazione, ha sempre accompagnato questo momento introduttivo, al termine del quale i bimbi si sentivano liberi di fare delle osservazioni “la scuola è andata via!”, “è arrivato il Kids!”… Analogamente abbiamo mantenuto una ritualità anche alla fine di ogni sessione, invitando i bambini a mettersi in cerchio, dandosi la mano e recitare la poesia Navajo “camminare nella bellezza”. Nonostante spesso i bambini non riuscissero a rimanere in cerchio per tutto il tempo della poesia, abbiamo notato come, anche da posizioni periferiche rispetto al resto del gruppo, oppure impegnati a fare “altro”, i bambini sin dall’inizio hanno memorizzato la poesia.

Materiali. La presenza dei puppets (vedi foto n. 1) ha rappresentato un elemento costante durante tutti gli incontri, per tutta la durata del laboratorio. I puppets si sono confermati dei notevoli facilitatori e canalizzatori dell’attenzione dei bambini. In particolare un puppet particolarmente significativo è stato il “maghetto”, con i suoi capelli bianchi e la sua bacchetta magica, è stato sempre di supporto nell’apertura e nella chiusura della sessione Kids’ Workshop. Inoltre, ha avuto un ruolo molto importante nei momenti in cui i bambini perdevano l’attenzione su quello che stavano facendo, oppure nei momenti in cui era previsto il racconto di una favola o di una storia. E’ stato interessante notare come fosse più catalizzante un puppet che narrava una storia piuttosto che a farlo fosse un facilitatore adulto.  Oltre al puppet “maghetto” sono entrati in gioco in quasi tutti gli incontri altri puppet raffiguranti animali come il leone, la coccinella, il cane, il gatto etc., utilizzati costantemente per interagire con i bambini, soprattutto quando nascevano delle conflittualità tra loro o quando qualche bambino tendeva ad estraniarsi dal gruppo. Un aspetto particolarmente significativo che abbiamo rilevato attraverso questa esperienza, è relativo al numero di puppets da utilizzare con i gruppo. Possiamo affermare infatti che più numerosi sono i puppets a disposizione dei bambini per giocare e farli interagire tra loro, più è facile che si manifesti aggressività, conflittualità e iperattività nel gruppo. Minori invece sono gli stimoli, nel caso specifico i puppets, migliore è la qualità dell’esercizio. Di puppets quindi ce ne dovrebbero essere a disposizione tanti quanti sono i bambini più 2-3 in più per permettergli delle alternative.

Facilitatori e facilitazione. Nonostante il gruppo di bambini fosse costituito da un numero minimo di partecipanti, si è dimostrato essenziale la presenza nel gruppo di due facilitatori: uno principale ed un altro con un ruolo più di supporto. Il facilitatore principale si è occupato sempre di aprire e chiudere le sessioni Kids, ha proposto gli esercizi ed ha introdotto sempre il break. Il secondo facilitatore si è occupato dei bambini che tendevano ad uscire dalle attività proposte, dei conflitti che emergevano tra loro, ma anche di fare da modello nei vari esercizi o nelle condivisioni dei propri vissuti rispetto all’esperienza fatta. L’identità del laboratorio è stata rafforzata dall’utilizzo delle magliette create ad hoc per il KW indossate durante gli incontri dalle facilitatrici.

Molto impegno ha richiesto l’individuazione di una modalità che fosse più appropriata non solo per interagire con i bambini, ma soprattutto per mantenere il più alto possibile il loro livello di attenzione. Un elemento risultato efficace in tal senso è stato citato precedentemente ed è relativo all’uso dei puppets. Di fatto le nostre riflessioni si sono spinte oltre al fine di individuare le “pratiche” per sostenere maggiormente le curiosità e gli interessi dei bambini, che fossero efficaci nell’accompagnare, ma anche accattivare e catturare gli interessi dei bambini attraverso l’uso del “linguaggio narrativo” (Sunderland, 2000). L’esperienza sul campo ci ha permesso di individuare tre elementi: – l’utilizzo del testo come traccia per la storia o per la favola narrata, – l’utilizzo delle immagini come aggancio illustrativo che serve ai bambini per seguire il filo della narrazione, anche se può avere degli effetti limitativi sulla creatività, e – l’utilizzo della voce, per caratterizzare i vari personaggi.

Facendo leva su aspetto caratteristico di questa fascia d’età, vale a dire la curiosità, abbiamo proposto spesso le attività anticipandole con un “effetto sorpresa”  che incuriosendo, appunto, i bambini, creava in loro le condizioni per un ascolto attento e partecipato a ciò che gli veniva proposto.  

Rispetto al modo di proporre gli esercizi proposto da Barbara Williams, abbiamo trovato molto efficace introdurre il momento del disegno (vedi foto n. 2) al termine di ogni esercizio proposto. Per i bambini in generale, ma in particolare per questa fascia d’età, il disegno rappresenta un canale per “integrare” l’esperienza. Essendo ancora il linguaggio verbale non totalmente sviluppato e quindi non adeguato a trasformare l’esperienza in parole, l’espressione grafica può proprio ottemperare a questo (Malchiodi, 1998).

Il break (vedi foto n. 3) ha rappresentato un momento particolarmente atteso dai bambini. Lo abbiamo proposto a metà circa dell’incontro mettendo a disposizione un certo numero di caramelle tale da permettere ai bambini di scegliere di prenderne una o più. C’è stato un rilevante cambiamento dal primo incontro ad oggi relativo alla quantità di caramelle venivano prese. Infatti i partecipanti che all’inizio facevano una vera e propria “scorta” di caramelle, per se e per la propria famiglia, con il passare del tempo hanno cominciato a prenderne un numero inferiore, denotando così una maggiore autoregolazione sia rispetto a se stessi sia rispetto al gruppo. Il break si delinea dunque come uno spazio importante durante il Kids perché facilita la condivisione e l’autoregolazione dei bimbi, creando uno spazio di rilassamento e calma.

Raccontiamo l’esperienza fatta

L’età compresa tra i due e i tre anni è un momento di crescita molto affascinante in quanto i bambini, avendo raggiunto una sufficiente autonomia di movimento nell’ambiente, cominciano a familiarizzare con le emozioni, ad esplorare le dinamiche di relazione con il gruppo dei pari, a sperimentare il loro potere personale attivando meccanismi di opposizione all’adulto, ad avere una rappresentazione interna della realtà tale da consentirgli di agire il gioco simbolico e ad utilizzare il linguaggio come strumento di comunicazione efficace non solo per esprimere i loro bisogni e desideri, ma soprattutto per condividere le loro esperienze. È in questa fase che le qualità innate descritte da Rogers della fiducia, dell’empatia, della congruenza e dell’accettazione positiva incondizionata di cui i bambini sono dotati, oltre alla capacità di comunicare in modo diretto, divengono palesi e si misurano nelle relazioni che i bambini hanno con l’ambiente sociale di riferimento (adulti e gruppo dei pari).

L’ipotesi di partenza, già condivisa in precedenza, che ci ha ispirato a voler rendere il laboratorio esperienziale della Williams fruibile anche ai bambini al di sotto dei tre anni, è che fortificare queste qualità nel momento in cui cominciano a manifestarsi e prima ancora che l’influenza dell’ambiente possa distorcerle o reprimerle, sia uno strumento di facilitazione per un processo di crescita che porti il bambino a sviluppare una personalità sana ed integrata; uno strumento, cioè di promozione della salute e di prevenzione del disagio.

Il lavoro si è svolto all’interno del “Centro delle Coccole”, un asilo nido convenzionato con il Comune di Roma, frequentato da bambini appartenenti a famiglie di ceto sociale medio. La programmazione didattica di questo asilo nido è ispirata ai principi della pedagogia che Carl Rogers ha espresso in Freedom to Learn (1969): tutto il personale è stato formato in tal senso attraverso un percorso di formazione appositamente progettato e la partecipazione al corso Insegnanti efficaci di T. Gordon; il gruppo formativo fa, già da due anni, supervisione e gruppi di incontro con una counsellor e una psicologa formate secondo l’Approccio sulla Persona; gli incontri mensili tra educatori e genitori sono strutturati come gruppi di confronto/incontro sulle tematiche legate alla facilitazione della crescita dei bambini verso l’autonomia. Quindi l’esperienza del Kids’ Workshop si è incastonata in un ambiente non ostacolante.

Abbiamo svolto il Kids’ Workshop con il gruppo di bambini della classe dei “germogli”: 9 bambini di cui 4 maschi e 5 femmine, tutti tra i 24 e i 27 mesi all’inizio dell’esperienza. Del gruppo tre bambini (Valerio, Elisa e Sofia) hanno fratelli più grandi e una bambina (Gaia) ha un fratello più piccolo. Nessuno dei piccoli aveva mai avuto precedenti esperienze di Kids’ Workshop.

Abbiamo cominciato gli incontri a partire dalla metà di ottobre 2011 con una cadenza settimanale; anche se a volte, per motivi legati alle festività o all’organizzazione interna del nido, la frequenza ha subito delle variazioni. Sono state fino ad oggi svolte 17 sedute di laboratorio. Ogni incontro, della durata di un ora, era strutturato con delle parti costanti ed una fase centrale variabile. Ciò che variava di volta in volta era l’esercizio proposto, scelto tra quelli considerati fondamentali dalla guida. Facevano parte della routine di ogni incontro, invece, la magia iniziale e la fase conclusiva costituita dalla recitazione della poesia dei Navajo recitata in cerchio e la magia finale.

In fase di progettazione, abbiamo stabilito, avvalendoci dell’esperienza fatta l’anno precedente, di utilizzare tecniche di facilitazione efficaci con la particolare fascia di età. La prima è stata quella di curare il setting rendendolo scevro da elementi che potessero essere per i bambini fonte di attrazione e distrazione. Abbiamo scelto di essere costantemente in due in modo da rispondere sempre alle richieste di attenzione e rassicurazione, molto frequenti nei bambini di questa età. La co-facilitazione si è rivelata anche importante per offrire ai piccoli una rappresentazione concreta di quanto l’esercizio, di volta in volta presentato, richiedeva. Per i bambini di questa età, infatti, non è facile decodificare mentalmente quanto viene comunicato con le parole. Oltre a mettere in atto le qualità rogersiane di congruenza, accettazione ed empatia, abbiamo ritenuto opportuno come facilitatori adottare uno stile di comunicazione narrativo molto attento al non verbale (postura, gesti, modulazione della voce, mimica) e la tecnica di ambientazione fantastica (uso della fiaba e della magia) durante la spiegazione degli esercizi.

Ha fatto parte della fase di progettazione anche il riadattamento degli esercizi proposti dalla Williams. Lavoro, questo, necessario per rendere le proposte comprensibili per i diretti interessati ed in linea con le loro competenze allo scopo di evitare che la frustrazione per la difficoltà del compito potesse inficiare i benefici effetti che tale esperienza ha più volte dimostrato di generare nei bambini più grandi che l’hanno vissuta. Tali riadattamenti sono stati progettati inizialmente sulla base della conoscenza che ci siamo costruite negli anni di lavoro con i bambini nell’ambito della relazione terapeutica, nel campo educativo e dell’animazione.

La documentazione dell’esperienza è avvenuta in due fasi: durante gli incontri con l’uso di videocamere e macchine fotografiche; dopo gli incontri con la compilazione di una scheda dove venivano riportate di volta in volta le caratteristiche generali dei singoli incontri (orario, data, luogo, presenze, frequenza, esercizi svolti) e i feedback dei due facilitatori. Il rilievo che di volta in volta i facilitatori hanno dato a ciò che durante l’incontro aveva funzionato e a ciò che, invece, poteva essere migliorato, ci ha permesso di apportare, agli adattamenti ideati su base teorica, successivi miglioramenti in termini di efficacia.

Mentre alcuni esercizi, come conoscersi attraverso i puppets, muoversi e danzare, il mio animale preferito, esprimi tre desideri, hanno richiesto pochissime modifiche rispetto all’originale, altri come i messaggi diretti e le maschere  sono stati modificati in modo importante. Ad esempio l’esercizio dei messaggi diretti è stato suddiviso in 4 fasi, ognuna corrispondente ad un incontro. Il primo incontro è stato dedicato alla spiegazione, utilizzando lo stile narrativo, del concetto di messaggio diretto e doppio messaggio, alla sperimentazione su sé stessi attraverso il riconoscimento allo specchio delle espressioni mimiche che accompagnano il messaggio e al riconoscimento della congruenza tra verbale e non verbale quando l’altro (il maghetto) esprime un messaggio diretto o doppio. Durante la seconda fase abbiamo proposto ai bambini un gioco di ruolo (la festa di compleanno della zia) per dare loro la possibilità di sperimentare in prima persona cosa si prova e cosa prova l’altro quando si da o si riceve un messaggio diretto piuttosto che un doppio messaggio. Al fine di familiarizzare ed interiorizzare il concetto dei messaggi diretti abbiamo strutturato il terzo incontro proponendo ai bambini il teatro dei burattini. L’esercizio consiste nell’animare, di fronte al pubblico costituito dal gruppo di bambini, due puppets che si scambiano informazioni e condividono le emozioni in relazione ai messaggi diretti e doppi. Osservare due puppets parlare tra loro, permette ai bimbi di immedesimarsi nei personaggi e ascoltare le loro parole consentendogli di rielaborare a distanza emotiva quello che hanno appreso sull’argomento grazie all’esperienza fatta durante gli esercizi precedenti. Infine la fase finale del lavoro sui messaggi diretti ha avuto come obiettivo quello di ricontestualizzare l’esperienza fatta nei tre incontri precedenti attraverso la narrazione di una fiaba appositamente costruita utilizzando un linguaggio multisensoriale che fosse massimamente coinvolgente per i bambini in modo che loro potessero rivivere, immedesimandosi con i personaggi della storia, gli svantaggi dell’uso dei messaggi doppi ed i vantaggi dell’uso dei messaggi diretti.

Alcuni degli esercizi previsti dal Kids’ Workshop, sono stati esclusi dalla versione per i più piccoli perché troppo complessi. Ad esempio, l’esercizio de il fiore immaginario è stato escluso in quanto i bambini al di sotto dei tre anni non sono in grado di immaginare nulla di cui non abbiano avuto un esperienza diretta e non hanno ancora acquisito il concetto temporale.

Nonostante la giovanissima età tutto il gruppo di bambini si è da subito interessato al laboratorio e a tutto ciò che vi accadeva all’interno. La gioia con la quale ogni volta venivamo accolte, ci ha convinto del vissuto emotivo positivo che i piccoli avevano dell’esperienza. Alcuni di loro hanno partecipato da subito in modo attivo sentendosi liberi di esprimere con il comportamento e con il verbale i loro sentimenti e i loro bisogni. Per altri c’è voluto più tempo; hanno avuto bisogno di osservare e di verificare che quello che si faceva non fosse per loro pericoloso. Già dalla metà del percorso, però, anche questi piccoli hanno preso fiducia e si sono lasciati coinvolgere. L’attività più gradita al gruppo è stata quella del familiarizzare con i puppets. Dato che avevamo rilevato anche l’anno precedente in occasione della prima esperienza di somministrazione ad un altro gruppo di piccolissimi e che ci aveva fatto decidere da subito di proporre tale esercizio ogni volta che il tempo dell’incontro lo permettesse. Se in un primo momento i puppets liberavano emozioni di aggressione agite con giochi di divoramento e lotta e favorissero pochi scambi comunicativi e soltanto con l’adulto, dopo un po’ di incontri gli scambi relazionali tra il gruppo dei pari hanno rappresentato l’attività prevalente.

Conclusioni

Complessivamente riteniamo che questa avventura sia stata un’esperienza positiva per i bambini che hanno potuto sperimentare uno spazio dove esprimere la loro creatività, vivere liberamente le loro emozioni, consapevolizzandole e imparando a gestirle e sperimentarsi nella relazione con l’altro in un clima di rispetto, accettazione e fiducia. Riteniamo, inoltre, che sia stata un esperienza positiva anche per noi facilitatori per la ricchezza che i bambini hanno saputo trasmetterci in termini di autenticità e affetto e per le conferme che abbiamo ricevuto alle ipotesi dalle quali siamo partite.

 

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[1] L’assimilazione consiste nella capacità del bambino di incorporare in schemi comportamentali già noti, acquisiti (come il camminare per un bambino di tre anni) i dati dell’esperienza (camminare su un tappeto mobile).

[2] Grazie all’accomodamento gli schemi posseduti vengono modificati per essere adattati ai nuovi dati (il bambino adatterà il suo passo alla velocità e alla direzione del tappeto).

[3] Si ha adattamento quando c’è equilibrio tra l’assimilazione e l’accomodamento

[4] La prova consiste nel presentare al bambino una scenetta con due personaggi: il personaggio A (Sally) mette un oggetto (una biglia) in un luogo X (dentro un cestino) ed esce; in sua assenza il personaggio B (Anne) sposta l’oggetto dal luogo X (il cestino) al luogo Y (dentro un cassetto). Quando Sally torna decide di andare a prendere la sua biglia. Si chiede quindi al bambino dove Sally andrà a cercare la biglia. La risposta che l’avrebbe cercata dentro il cestino (cioè dove Sally pensa che sia e non dove realmente si trova) corrisponde al riconoscimento della falsa credenza da parte del bambino.

[5] L’attaccamento sicuro caratterizza i bambini che hanno avuto una madre sensibile ai loro segnali e responsabile nel rispondere in modo soddisfacente alle loro richieste. Questi bambini sono capaci di equilibrare il comportamento esplorativo con quello di attaccamento, confidando nella responsabilità della madre nelle situazioni di pericolo e mantengono una sicurezza interna che consente loro di esplorare il mondo. L’attaccamento insicuro o evitante è tipico dei bambini la cui madre si è mostrata insensibile ai loro segnali e rifiutante al contatto fisico. Mostrano uno spiccato distacco ed evitamento della vicinanza con la madre; in assenza di quest’ultima si mostrano indifferenti e non reagiscono alla separazione. I bambini che mostrano un attaccamento ambivalente, infine, hanno avuto una madre imprevedibile nelle risposte. Essi appaiono completamente assorbiti dalla figura di attaccamento, ma non riescono ad utilizzarla come base sicura da cui partire per esplorare l’ambiente. Durante la separazione dalla madre esprimono segni di stress, disagio, angoscia.

Intelligenza emotiva e successo professionale

L’intelligenza emotiva è una dimensione dell’intelligenza umana che si riferisce alla capacità di attivare una serie di competenze utili per riconoscere, comprendere ed utilizzare in modo consapevole e produttivo le proprie e le altrui emozioni al fine di raggiungere obiettivi personali e professionali. Con essa si intende quindi un tipo particolare di intelligenza che rende le persone protagoniste attive del proprio benessere e della propria salute (Zucconi, 2003).

Come nasce il concetto di intelligenza emotiva

Tale costrutto definito originariamente da Peter Salovey e John D. Mayer nel 1990, è stato portato all’attenzione del grande pubblico grazie al best seller di Daniel Goleman Emotional Intelligence (1995) aprendo la strada ad una serie di ricerche applicative in ambito psicologico, organizzativo/aziendale e scolastico sia in Italia che nel resto del mondo.

I risultati dimostrano in modo corale quanto potenziare l’intelligenza emotiva con programmi di prevenzione e di intervento abbia impatti positivi sul livello di performance sia in campo aziendale che scolastico.

In abito professionale le persone ottengono risultati e maggiore soddisfazione nel loro lavoro; in ambito scolastico bambini e ragazzi ottengono punteggi più alti sia nelle materie scientifiche che letterarie e dimostrano migliori capacità di superare situazioni di crisi o difficoltà.

In un gruppo di persone il QI è mediamente intorno a 100. Allora perché alcune riescono più facilmente ad andare d’accordo con gli altri; ad orientare le scelte e i comportamenti del gruppo; ad avere chiari i loro obiettivi e raggiungerli?

“Il solo QI non è sufficiente. Gli psicologi ritengono, infatti, che tra gli ingredienti per il successo, il quoziente intellettivo pesi per circa il 10% (nel migliore dei casi il 25%)” (Bressert, 2007).

Ciò che fa la differenza è proprio il QE, ossia il livello di intelligenza emozionale che rende le persone più o meno abili ad unire pensiero ed emozioni per prendere decisioni vincenti in termini di risultati ottenuti.

Come si apprende l’intelligenza emotiva

Mentre il QI di una persona resta relativamente stabile nel corso della vita, l’intelligenza emotiva può essere appresa grazie a progetti specifici mirati all’apprendimento di alcune competenze che ne definiscono il costrutto.

Molte aziende attualmente, oltre ad usare test sul QE nel processo di selezione delle nuove risorse umane, propongono al loro personale una formazione mirata su competenze quali: autoconsapevolezza emozionale, regolazione del comportamento, visione positiva e proattiva, empatia relazionale e ambientale, consapevolezza organizzativa, leadership, gestione dei conflitti, competenza decisionale, comunicazione efficace e cooperazione.

Viene da sé che introdurre nei programmi didattici delle scuole percorsi per l’apprendimento e il potenziamento di quelle stesse competenze che, secondo Goleman (2001), contraddistinguono l’intelligenza emozionale, significa formare nuove generazioni di lavoratori, professionisti, leader, genitori e, più in generale, persone capaci di agire comportamenti orientati alla propria realizzazione e al benessere.

Sempre più scuole ed organizzazioni educative particolarmente innovative stanno introducendo nella loro offerta formativa percorsi specifici di Social Emotional Learning ottenendo riscontri nei risultati scolastici, in ambito sociale e di promozione della salute sia per gli studenti che per il personale educativo.

Dal mio punto di vista è fondamentale formare in tal senso gli insegnanti in modo che essi stessi possano agire direttamente le competenze dell’intelligenza emozionale nella quotidianità del loro lavoro in classe. Questo infatti permetterebbe loro, oltre che porsi come modello ai ragazzi per l’apprendimento esperienziale delle abilità emozionali, anche di:

  • agire in modo funzionale la leadership facilitando la gestione del gruppo classe;
  • organizzare in modo efficiente ed efficace il lavoro;
  • stabilire un clima relazionale di qualità con i colleghi e con i genitori;
  • aumentare la motivazione e l’autostima prevenendo il bournout.

Su questa scia ho ideato un percorso esperienziale che si pone come obiettivo la facilitazione nei docenti di ogni ordine e grado del potenziamento dell’IE traducendo le relative competenze in strumenti concreti e operativi, immediatamente spendibili nella vita professionale reale.

Il corso Intelligenza Emozionale e Apprendimento Significativo, vuole essere al servizio di ogni partecipante accompagnandolo nella definizione dei propri obiettivi professionali e attivandolo per apprendere in modo diretto, a partire dalla sua personale esperienza, strategie veramente utili alla definizione e realizzazione del proprio piano d’azione.

Fonti

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Zucconi, A., Howell, P. (2003) La Promozione della Salute, Molfetta, Ed. La Meridiana.

5 buone ragioni per attivare un servizio di counselling a scuola!

5 buone ragioni per attivare un servizio di counselling a scuola!

L’Istituzione educativa, sia essa asilo nido, scuola primaria, secondaria o università è al tempo stesso luogo di apprendimento, ambiente di lavoro e centro di aggregazione sociale. E’, quindi, un crocevia di alcuni tra i più importanti sistemi, interdipendenti e tutti determinanti per la salute degli individui.

In quanto tale, l’ambiente scuola diventa luogo privilegiato per l’applicazione di politiche mirate al miglioramento del clima di benessere in ognuno di tali sistemi, attraverso l’attivazione di strumenti e servizi utili a facilitare il benessere fisico, psicologico e sociale delle persone che lo abitano.

Non a caso l’OMS definisce “Scuola Promotrice di Salute quella che costantemente consolida la propria capacità di essere ambiente favorevole alla salute per apprendere e lavorare. La scuola sana si impegna a migliorare la salute non solo degli studenti, ma anche del personale scolastico, delle famiglie e dei membri della comunità”.

Quanto finora affermato è in linea con l’assunto fondamentale della Carta di Ottawa che vede il singolo, o la collettività, capaci di raggiungere un completo benessere quando agiscono in prima persona sull’ambiente di riferimento per dare soddisfazione ai reali bisogni e realizzare le loro aspirazioni.

L’abilità di mettere in atto comportamenti che consentano di affrontare efficacemente gli eventi della propria vita, è una competenza che può essere appresa attraverso l’informazione e l’esperienza.

Diventa allora fondamentale promuovere, anche e in special modo nell’ambiente scuola, azioni che favoriscano la presa di coscienza da parte delle persone che lo abitano del proprio empowerment, ossia della possibilità che essi stessi, e soltanto loro, hanno di agire in modo efficace per il raggiungimento del miglior equilibrio possibile nelle dimensioni biologica, psicologica e sociale del sé.

Tra gli strumenti utili al raggiungimento di tale obiettivo spicca il counselling in quanto “relazione professionale di aiuto” in cui il cliente può accrescere il suo livello di autonomia e di competenza decisionale, mediante l’acquisizione di una maggiore consapevolezza dei propri bisogni e del proprio potenziale di risorse personali.

In Italia la diffusione delle opportunità di facilitazione offerte dal counselling all’interno delle istituzioni scolastiche è sicuramente un fenomeno in espansione, pur non essendo ancora una realtà diffusa in modo capillare su tutto il territorio.

1. il counselling aiuta le persone ad acquisire maggiore consapevolezza dei propri bisogni e delle risorse personali disponibili per mettere in atto comportamenti utili al raggiungimento e mantenimento di una condizione di benessere

Il bisogno esiste a vari livelli e con diversi setting di applicazione:

  • quello di facilitazione per le problematiche degli studenti;
  • quello della promozione della salute nei luoghi di lavoro;
  • quello per il sostegno alla genitorialità.

Sebbene l’area problematica generale sia quella delle relazioni intra-personali ed interpersonali legate all’educazione, all’apprendimento/insegnamento, e alla comunicazione efficace, la prospettiva attraverso la quale tale area viene percepita dal soggetto che si trova in difficoltà cambia a seconda del ruolo (insegnante, studente, genitore, personale scolastico), cambiando di conseguenza anche l’area di pertinenza del processo decisionale.

Dato l’obiettivo generale di promozione del cambiamento, proverò ora ad elencare alcuni tra i possibili settori di intervento specifici dove un helper, in qualità di counsellor, può sostenere le persone nell’affrontare e superare situazioni di difficoltà momentanee e circoscritte.

Il counselling migliora la qualità del clima nell’ambiente di lavoro

2. risolvendo con successo i problemi di relazione e comunicazione che insorgono nel contesto scuola.

Un servizio per i docenti.
Per lo svolgimento della loro professione, gli insegnanti si relazionano con altre persone. Il ruolo professionale richiede, infatti, loro di costruire e mantenere nel tempo relazioni interpersonali di qualità al fine di svolgere il compito educativo e didattico.

Alunni, singoli e gruppo classe, colleghi del corpo docente, dirigenti e personale amministrativo, genitori degli studenti: secondo una stima approssimativa un insegnante nel corso di una giornata lavorativa standard incontra e si confronta con circa 50 persone di diversa età, genere, cultura, formazione, classe sociale.

Costantemente si trova a dover stabilire e rinforzare con tutti loro un alleanza collaborativa utile a risolvere i numerosi e variegati problemi di relazione e comunicazione che insorgono quotidianamente nel contesto scolastico. Tale compito è complesso e può succedere che gli insegnanti si trovino, a volte, ad affrontare situazioni difficili; a gestire un momento di crisi personale o professionale. Può succedere che si trovino di fronte alla necessità di prendere in tempi brevi una decisione importante verso loro stessi, un allievo, un collega, l’istituto nel quale lavorano. In queste situazioni non sempre si riesce ad intravedere una soluzione veramente soddisfacente, a breve, medio e lungo termine.

Avere all’interno della struttura educativa nella quale operano un servizio di counselling, rappresenta per i docenti l’opportunità di superare queste difficoltà contenendo al contempo i livelli di stress e di fatica.

La presenza di un counsellor a scuola significa, per i docenti che si trovano in situazioni di impasse, godere della possibilità di rivolgersi ad un helper competente e formato all’uso di tools come l’ascolto empatico, la comunicazione efficace e il problem solving. Tali strumenti sono utili per accompagnare chi chiede aiuto verso un maggiore equilibrio tra la dimensione emozionale e cognitiva del sé; equilibrio necessario per l’efficacia del processo decisionale. Il counsellor, utilizzando lo strumento del colloquio, affianca il docente che si rivolge a lui, in un percorso di autoconsapevolezza circa le abilità che egli stesso possiede e le strategie che può utilizzare per superare le sfide connesse al raggiungimento effettivo di determinati obiettivi professionali.

Esiste una ricca letteratura circa l’efficacia degli interventi di counselling rivolti ai docenti. Più precisamente, risultati di ricerche sul campo dimostrano come il counselling scolastico abbia per chi lavora nella scuola, un’importante azione sulla qualità del clima nell’ambiente di lavoro con conseguente contenimento dei livelli di stress e potenziamento delle skills di autoefficacia e produttività; un miglioramento della qualità delle relazioni sia con i colleghi che con i gruppi classe; minore assenteismo; prevenzione della sindrome da burnout.

Supporto al personale scolastico.


Il buon funzionamento di ogni singola istituzione scolastica dipende dal lavoro sinergico e collaborativo di tutte le persone che operano al suo interno, le quali condividono la responsabilità in merito alla qualità del clima nell’ambiente di lavoro e al processo di apprendimento degli studenti[2].

In quest’ottica la presenza di un servizio di counselling scolastico rappresenta un valore aggiunto per l’impatto positivo che ha sul benessere personale e l’efficenza professionale di tutti i gruppi di persone che lavorano nel sistema educativo: dirigenti, amministratori, personale ATA, consulenti esterni.

Il counselling scolastico, infatti, è uno strumento proattivo che, migliorando il benessere delle risorse umane, ha importanti effetti sulla efficienza dell’istituzione educativa in termini di miglioramento della produttività (innalzamento dei livelli di rendimento degli studenti), abbassamento dei costi di produzione (stop al turnover e minore assenteismo per malattie o scioperi), positività dei bilanci economici (aumento degli iscritti e recupero fondi) e qualità dell’immagine sociale.

Il personale scolastico può rivolgersi al counsellor come professionista della relazione di aiuto per trovare sostegno e agire in modo risolutivo su situazioni critiche, quali:

  • insoddisfazione, demotivazione professionale o calo di efficienza lavorativa;
  • errori operativi, gestione efficace del tempo di lavoro
  • bilanciamento vita privata/vita professionale
  • rapporti difficili o conflittuali tra il personale scolastico, assenteismo;
  • difficoltà inerenti al raggiungimento degli obiettivi prefissati;
  • sviluppo e recupero di potenzialità e risorse personali e professionali utilizzabili;
  • transizione professionale e scelta dell’evoluzione della propria carriera lavorativa.

3. l counselling facilita dirigenti, personale amministrativo e personale ATA lavorare meglio e cooperare per raggiungere obiettivi condivisi

Il counselling rivolto agli alunni.

Bambini e ragazzi trascorrono la maggior parte del loro tempo a scuola e tutti i giorni affrontano sfide legate al percorso di studi, alla realizzazione professionale, alla costruzione di relazioni sociali soddisfacenti con il gruppo dei pari e con gli adulti. La scuola, pur essendo un punto di riferimento essenziale per la crescita, l’educazione e l’apprendimento, fatica a rispondere ai bisogni individuali e alle aspettative degli studenti.

Il counselling scolastico si colloca proprio in questo spazio di fatica, in quanto il suo più grande beneficio consiste nel sostenere gli alunni in un percorso quotidiano volto a rafforzare la loro capacità di autoconsapevolezza e autoregolazione mettendo in relazione gli obiettivi educativi presenti con il loro successo futuro.

Attraverso percorsi brevi individuali o di gruppo, il counselling: potenzia la motivazione all’apprendimento; facilita la scelta di un metodo di studio efficace; promuove l’autoconsapevolezza riguardo la responsabilità del percorso di studi; incoraggia i ragazzi a parlare in modo diretto e autentico con i loro genitori e/o insegnanti delle cose che li preoccupano; rafforza in loro le competenze di confronto costruttivo al fine di risolvere positivamente conflitti, affermare convinzioni, professare valori.

4. Il counselling aiuta ogni studente a diventare protagonista attivo del proprio processo di apprendimento e lo facilita nell’acquisizione dell’autonomia, dall’autoconsapevolezza e dell’autoregolazione

Attivando per i propri alunni uno sportello di counselling, la scuola rende disponibile un sostegno per migliorare le competenze emotive e sociali a vantaggio delle relazioni con gli altri significativi che gravitano nel loro stesso ambiente educativo.

Il counsellor, in quanto professionista della relazione di aiuto, offre ad ogni bambino/a e ragazzo/a che si rivolge a lui, qualità come l’empatia, la congruenza e l’accettazione incondizionata costruendo in tal modo uno spazio relazionale protetto e libero dal giudizio dove poter esprimere attraverso l’auto-narrazione e il confronto, tutte le emozioni che influenzano negativamente la propria quotidianità.

Il fine è accompagnare e sostenere gli studenti nel superamento di situazioni di difficoltà contingenti e circoscritte.

Le difficoltà più frequenti sono:

  • quelle legate all’apprendimento (metodo di studio; bilanciamento tra tempo di studio e tempo libero; capacità di attenzione e concentrazione in classe);
  • bassi livelli di motivazione allo studio e regolazione del comportamento legato alle emozioni che causano distress (noia, rabbia, indifferenza, paura, timidezza, ansia);
  • quelle legate all’orientamento rispetto alla scelta scolastica o professionale.

Riuscire ad affrontare e risolvere in modo costruttivo tali difficoltà significa prevenire fenomeni come quello della dispersione scolastica, dell’abbandono precoce degli studi, del drop-out o del bullismo e, al contempo, promuovere nei bambini e ragazzi l’apprendimento di abitudini di comportamento sane e funzionali al benessere proprio e della comunità alla quale appartengono.

Counselling come opportunità per le famiglie.

Il quarto ambito di intervento del counselling scolastico che, in questo lavoro, prendo in considerazione è quello per il potenziamento delle competenze genitoriali e la facilitazione delle relazioni familiari.

La solidità della struttura familiare e l’entità del sostegno emotivo che la rete parentale offre all’individuo sono, infatti, tra i fattori determinanti della salute (OMS). È all’interno dell’ambiente famiglia che gli esseri umani fin da piccolissimi strutturano l’immagine di sé e le modalità di coping, ossia le abitudini comportamentali relative alla salute (igiene, alimentazione, attività fisica, sonno), ai valori (costrutti culturali e credenze) e alle relazioni interpersonali (gli stili di comunicazione, l’organizzazione del tempo, l’approccio alla sessualità). Alcune scelte educative, possono comportare nei figli l’attivazione automatica di schemi di comportamento inadeguati in quanto, seppur rispondono a gratificazioni immediate e di breve durata, a medio/lungo termine risultano dannosi per la salute e la qualità del clima familiare  (sottomissione/rifiuto autorità, assenteismo scolastico, fumo, dipendenze, pratiche sessuali ad alto rischio)

5. Il counselling sostiene i genitori promuovendo azioni educative consapevoli e facilitando la comunicazione scuola/famiglia

Essendo la scuola a tutti gli effetti una delle principali agenzie educative, con il counselling offre ai genitori uno spazio di condivisione, confronto e informazione, promuovendo azioni educative consapevoli e lo sviluppo del potere che la famiglia ha di valorizzare nei figli l’assunzione della responsabilità verso il loro benessere e la loro esistenza.

Attraverso il counselling, genitori, nonni, baby sitter e chiunque a vario titolo si prenda cura della crescita di un minore, hanno la possibilità di affrontare positivamente problematiche circoscritte, contingenti e che necessitano di risposte immediate. Cito ad esempio:

  • riattivazione di risorse personali al fine di rendere più efficace l’azione educativa;
  • affinamento delle abilità di comprensione delle motivazioni alla base del comportamento dei figli
  • potenziamento delle competenze per riconoscere, affrontare e risolvere i problemi relativi alla relazione educativa;
  • acquisizione o rafforzamento della capacità di dare e ricevere ascolto e attenzione;
  • gestione di rapporti difficili o conflittuali nell’ambito delle relazioni familiari ed extra-familiari (insegnanti e personale scolastico, altri genitori).

Concludendo

Indipendentemente dal fatto che a richiedere il sostegno sia uno studente, un genitore o un insegnante, il Counsellor ha il compito di facilitare la persona (singolo o gruppo) nell’attribuire i significati agli eventi con i quali quotidianamente si confronta nel contesto scolastico, promuovendo in lui nel contempo autoconsapevolezza e autoregolazione: il suo compito è di facilitare il cambiamento attraverso una relazione che, come afferma sempre Rogers, non è finalizzata a dare potere (empowerment) al proprio cliente, ma a non sottrarglielo giocando egli stesso il ruolo di esperto.[1]

Consapevole di non aver trattato l’argomento in modo esaustivo, spero, comunque, di aver reso onore all’importanza della prassi del Counselling Scolastico inteso come strumento di promozione del benessere.

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